Napoli: La napoletanità nella storia dell’arte, Scugnizzi, un mito duro a morire
Gli scugnizzi, i ragazzi del popolo napoletano, definiti nel tempo anche guaglioni o sciuscià, sono presenti in ogni epoca ed assieme ai lazzari rappresentano l’anima più genuina della città. L’oleografia ce li rappresenta sorridenti e distesi al sole, ma la loro vita è stata frequentemente una storia di miseria, analfabetismo e sofferenza.
Spesso sono stati al centro di avvenimenti cruciali: da cuore pulsante della rivolta di Masaniello a piccoli eroi ardimentosi protagonisti delle Quattro Giornate, che portarono alla cacciata dei tedeschi, ma senza dimenticare la partecipazione spontanea alle grandi manifestazioni di giubilo come la Piedigrotta o le tante altre feste tradizionali, che cercano di far dimenticare ai cittadini la tristezza di una vita povera e priva di speranze. La pittura e la scultura ed in tempi più recenti la musica, il teatro ed il cinema ne hanno tessuto le lodi, spesso grazie ad artisti, anche essi scugnizzi per nascita o vocazione come Gemito, Mancini o Viviani. Gemito venne allevato nel brefotrofio dell’Annunziata, dove assunse il suo cognome per il continuo lamentarsi. Della sua condizione di figlio della Madonna si vantò per tutta la vita e più volte immortalò la figura dello scugnizzo nelle sue sculture come nel celebre Pescatorello, più volte replicato, nel quale imprime, con la magia del suo cesello, un brivido di luce alla superficie bronzea. Egli si serviva come modelli di scugnizzi presi dalla strada, che teneva a lungo in piedi su di un sasso cosparso di sapone per cogliere l’energia potenziale e la fame atavica, ben espressa dai pesciolini portati alla bocca, per poterle poi immortalare nel metallo. Anche Mancini, nasce scugnizzo e continuò a lungo a rappresentare questi candidi fanciulli, mentre scalzi con gli abiti laceri ed una coppola sgualcita sulla testa contemplano un piatto di pasta od una festa alla quale avrebbero voluto partecipare. Viviani come nessun altro commediografo ha saputo cogliere l’essenza degli scugnizzi, creando un pantheon di volti tristi o gioiosi, di corpi macilenti e sgraziati ed ha saputo sottolineare il loro carattere beffardo e la gioia di vivere, prelevando i suoi protagonisti dai bassifondi e dal mondo dei diseredati, ma assegnando a questi eterni emarginati il compito di far sentire polemicamente la loro voce nel denunciare le contraddizioni di una società dove troppo vistose erano le ingiustizie e troppo stridente il divario tra poveri e ricchi. Tra i registi Vittorio De Sica dà voce alle miserie del dopoguerra e colloca gli scugnizzi napoletani in una nuova nomenclatura coniando il termine sciuscià, dall’americano shoe shine, pulisciscarpe. Sono bambini di sei sette anni costretti dal furore degli avvenimenti ad inventarsi un mestiere per sopravvivere e saranno magistralmente descritti da Malaparte nella Pelle;” Bande di ragazzi cenciosi, inginocchiati davanti alle loro cassette di legno, gridando sciuscià, shoe shine”. Seguiranno altri registi: Nanny Loy con Le quattro giornate di Napoli ed in tempi più recenti Piscitelli con Baby gang e Capuano con Vito e gli altri. Centinaia di migliaia di napoletani hanno fatto la fila per applaudire e commuoversi per il recital Scugnizzi, che da anni fa il tutto esaurito dovunque venga rappresentato, imperniato sulla figura di un prete che combatte la camorra, pochissimi sanno però che l’ispiratore del personaggio è veramente vissuto a Napoli ed ha fatto cose ben più grandi di quelle che si raccontano nel musical. Egli era il celebre Don Vesuvio, soprannome assegnatogli dagli emigranti e nello stesso tempo Naso stuorto, come lo chiamavano affettuosamente gli scugnizzi dei vicoli napoletani. Oggi, ritornato allo stato laicale, è semplicemente il dottor Mario Borrelli, vive abitualmente ad Oxford ed è venerato da estimatori e studiosi di tutto il mondo. La sua storia straordinaria comincia in una stradina del quartiere Porto, dove nasce nel 1922 in una famiglia di doratori. A otto anni è a bottega da un barbiere, quindi garzone in un bar, dove conosce un prete, al quale confessa che di notte, ogni notte, sente la voce di Dio che lo chiama ripetutamente. Grandi sacrifici per la madre che favorisce la sua vocazione e si fa in quattro per pagare le rette del seminario. Nel 1946, quando diventa sacerdote, si trova a confrontarsi con una Napoli colma di macerie materiali e morali. Gli scugnizzi senza famiglia sono legioni, figli di genitori morti sotto i bombardamenti o abbandonati da prostitute senza scrupoli. Egli capisce subito che il suo compito è di redimerli dal loro triste destino e chiede al cardinale il permesso di infiltrarsi tra di loro e vestirsi da straccione. Comincia la sua doppia vita: di giorno sacerdote ed insegnante di religione in un liceo classico del Vomero, di notte scugnizzo alla disperata caccia del sostentamento quotidiano. Lasciamo a lui la parola: «Allora, la fame era la madre della vita, i trucchi per sopravvivere erano infiniti e a metterli in atto erano esseri ibridi senza genitori, mezzo uomini e mezzo bambini, e tuttavia né bambini né uomini, capaci però di realizzare stupefacenti strategie di arrangiamento esistenziale senza la violenza di oggi, che fa accoltellare chiunque per un nonnulla”. Egli rammenta con malinconia quei giorni ricordando l’abilità degli scugnizzi nel turlupinare soldati americani a caccia di ”segnorine”, ridotti letteralmente in mutande (e a bocca asciutta), e scaricati dormienti nei cassonetti importati dagli Usa, gli abiti venduti, dopo una bella sbronza a base di vino spacciato per prelibato moscato: «Nel senso che ci mettevano le mosche dentro» ride divertito. «Sono questi ragazzi che mi hanno donato il senso stupendo della libertà». Questo racconto lo ascoltai dalla sua viva voce presso la sede napoletana dell’Ucid, negli anni Sessanta, dove era stato invitato dall’ingegnere Sergio Lamaro a parlare della sua vita avventurosa ai giovani. Rimasi colpito dai suoi abiti civili, all’epoca i preti non prediligevano il clergyman, e dalle sue parole, semplici e prive di enfasi. Mi resi conto che quegli episodi leggendari meritavano la penna di un grande scrittore, che avesse l’occhio acuto del pittore e l’impietoso angolare dello storico. Ma ritorniamo a quegli anni eroici. Per essere accettato pienamente dalla sua banda non si spaventa a dover usare le mani, anzi, prese lezioni di boxe, sfida il capo della combriccola, esperto a manovrare il coltello e lo sconfigge, divenendo all’unanimità capo banda. Egli riesce a procurarsi un tetto, utilizzando una vecchia chiesa sconsacrata di Materdei, che, con l’aiuto di alcuni volenterosi, trasforma in un centro di accoglienza. Attira lì i primi scugnizzi con l’offerta di cibo e di ricovero per la notte. In seguito gli regalano un carretto grazie al quale recupera rottami di ferro da rivendere. Possiederà poi un biroccio ed infine un camion, col quale trasporta e vende abiti smessi e calzature usate, procurandosi fondi per il suo centro di accoglienza. Ma l’occhio benevolo della Provvidenza non smetteva di seguirlo e gli fece capitare tra le mani il biglietto vincente della lotteria di Agnano, che il proprietario del tagliando non aveva riscosso. Cominciano le prime incomprensioni con la curia che vuole destinare il denaro per un’altra iniziativa, ma don Borrelli non molla e fa nascere l’edificio sulle ceneri della vecchia chiesa di Materdei. L’arcivescovo cerca allora di impossessarsi della struttura, chiedendo all’indomito prete di assumerne unicamente la direzione con uno stipendio; una soluzione che non piace al fondatore, il quale diventa gerolomino dell’ordine di San Filippo Neri, un ordine che non prende ordini dalla curia. Divenne bibliotecario all’oratorio dei Girolamini, dove pazientemente catalogò i settantamila volumi custoditi, con cura e competenza, perché egli non era solo uomo di fede e di impegno civile, ma anche teologo e paleografo, specializzatosi in Inghilterra presso la London School of Economics. Nel frattempo il nome di Don Vesuvio fa il giro del mondo grazie ad un libro The children of the sun di uno scrittore australiano, Morris West, che per un lungo periodo affianca in prima linea l’indomito prete per raccontarne le fantastiche imprese. Il volume arriva sulla scrivania della Casa Bianca, letto con commozione dalla first lady, Eleanor Roosevelt, che commenterà entusiasta:”La più straordinaria avventura che abbia mai letto”. Il libro diverrà poi un film che farà conoscere le eroiche gesta di don Borrelli dall’Australia al Canada, dalla Francia alla Germania, favorendo la creazione di comitati di sostegno che faranno affluire denaro per la sua iniziativa. Soltanto nel 1963 in una autobiografia scritta con Anthony Thorne ed intitolata Napoli d’oro e di stracci, all’ultima pagina il battagliero prete si confessa, ritenendo, evangelicamente, che sia il momento di tirare a riva la rete. ”Si sono io Don Vesuvio, ma sono anche Naso stuorto, sono tutti e due assieme”. La sorpresa fu grande e finalmente tanti scugnizzi capirono, con le lacrime agli occhi, perché ci teneva tanto ad insegnare loro un mestiere. Nel 1967 ritorna allo stato laicale, ma continua indefesso la sua opera, ritenendo che bisognasse agire alla base del fenomeno, altrimenti gli scugnizzi non sarebbero mai scomparsi, perché essi rappresentano solo il sintomo più appariscente di un diffuso malessere sociale. Cominciò a combattere al fianco dei baraccati e divenne un’icona dell’ultra sinistra napoletana. Sfiorò più di una volta la condanna in tribunale e forgiò un’intera generazione di animatori sociali. Nel 1971 si sposò con una ragazza sudafricana ed ebbe una figlia, che oggi dirige un prestigioso istituto scientifico di caratura internazionale. Ad ottantaquattro anni conserva la grinta e l’ardore giovanile, con un lampo negli occhi, che sovrasta i capelli oramai di un bianco candore. “Oggi vedo molta prostituzione tra il potere e la povertà ed i nuovi scugnizzi sono gli immigrati extracomunitari, i nomadi i profughi, che hanno preso il posto dei disperati ragazzi di strada della Napoli del dopo guerra”. Parole come frecce che egli ebbe modo di scandire tempo fa in occasione di un suo breve ritorno nella città natale. Napoli rappresenta il richiamo della foresta, al quale non riesce a resistere a lungo. Qui vi è la sua creatura, vi è sua figlia, vi è sua moglie, gravemente ammalata. “Alla mia età non mi resta che lo studio e la ricerca, ma anche per questo vi è necessità di coraggio e fantasia”. Sono lontani i tempi eroici quando decise di intrecciare concretamente la propria vita di sacerdote oratoriano ed erudito studioso con gli scugnizzi orfani del dopoguerra napoletano, con i baraccati e le puttane senza diritti, vivendo e combattendo con loro sulla strada, al di là di ogni convenzione, da scomodo e ribelle prete scugnizzo, da polemico avventuriero di Dio, vagabondo tra i vagabondi e maieuta caparbio e insofferente a qualunque forma di sopraffazione e iniquità dell'uomo sull’uomo. In una Napoli d’oro e di stracci, come il titolo della sua autobiografia, seppe creare la Casa dello Scugnizzo nel cuore di Materdei, pionieristico punto di riferimento per uomini di buona volontà. Il testimone della sua attività è passato ad Ermete Ferraro, oggi presidente della Fondazione, insegnante, ma soprattutto ex scugnizzo. Achille della Ragione
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