La storia del seno negli anni Ottocento Antonio Canova è il massimo esponente della cultura neo classica, ideatore di un gusto e di uno stile che incontreranno successo in tutta Europa. Le sue opere sono costantemente alla ricerca di forme della più pura e raffinata eleganza e quando egli dà libero sfogo alla sua fertile fantasia creativa, fa rivivere nel marmo una realtà palpitante con una leggerezza da far vibrare le superfici dei corpi come sotto una carezza.
La sua opera più famosa, realizzata nel 1808 e conservata nella Galleria Borghese a Roma, è la statua di Paolina Bonaparte raffigurata come Venere vincitrice (103 b) commissionata all’artista da Camillo Borghese dopo il matrimonio avvenuto nel 1803, nella quale la giovane nobildonna, sorella prediletta di Napoleone, non sfigura nella impari gara con la dea della bellezza, distesa sofficemente con grazia pagana su una dormeuse in una posa seducente divenuta un’icona del fascino femminile. La fanciulla irradia una bellezza magnetica tutta corporea, paga di sé, venata da un nascosto languore. Il seno maliziosamente esposto diviene il fulcro della creazione del Canova che così dichiarava: “Non si può vedere una intera bellezza coi soli occhi materiali, se non si aggiungono gli occhi dell’anima”. Il Canova dedicò la massima attenzione alla definizione del seno di Paolina, del quale era segretamente innamorato e per essere più preciso approntò personalmente un calco (104), conservato a Roma nel museo Napoleonico. Quando il modello fu eseguito la sorella del supremo condottiero aveva 28 anni e non aveva avuto, né ne avrà in seguito, gravidanze. Gerolamo Segato è una figura singolare di dotto imbalsamatore, grande esperto di mineralogia e profondo conoscitore delle scienze naturali. Egli si recò in Egitto dove riuscì ad apprendere l’antica tecnica di conservazione di pezzi anatomici attraverso un segreto processo di pietrificazione, che conservò gelosamente per tutta la vita, attirandosi la gelosia dei colleghi e la morbosa curiosità dei posteri, increduli davanti alla sua straordinaria abilità. Sapeva conservare con eguale perizia insetti di piccole dimensioni o grossi animali, ma la perfezione la raggiungeva con i pezzi anatomici umani, come ad esempio questo scultoreo Busto pietrificato di giovane donna (105), eseguito intorno al 1830 e conservato nel museo di Storia della Scienza di Firenze. Egli raggiunse notorietà internazionale e portò nella tomba il segreto della sua tecnica prodigiosa che nessuno riuscì ad imitare. Nel pezzo anatomico in esame sbalorditiva è la resa del roseo colore delle areole, da fare concorrenza agli imbalsamatori egiziani, i quali sono riusciti a far arrivare fino a noi i seni delle donne affidate alle loro cure…Nell’eternità delle mummie, tutte fasciate, si conservano ancora eretti e sodi i seni delle principesse e delle mogli dei faraoni, a perpetuare la fama che i seni delle egiziane erano i più scattanti ed agguerriti dell’antichità, plasmati di fibra dura e fertili come la terra bagnata dal Nilo. Essi erano noti per la perfezione ed armonia delle proporzioni e le loro misure erano in sintonia con gambe lunghe e sederi seducenti, erano sinonimo di una finezza della materia e di una semplicità assoluta, mai più raggiunta nella storia dell’umanità. Eugéne Delacroix fu artista dalla personalità complessa, attento alle tematiche sociali ed attratto dal fascino dell’esotismo e del vicino Oriente, che seppe rievocare con calda sensualità e con una tavolozza memore della lezione di Rubens e dei Veneziani. Il suo quadro più famoso è certamente la Libertà che guida il popolo (106), che domina le austere sale del Louvre dedicate alla pittura francese, opera piena di simboli più o meno trasparenti riferiti agli avvenimenti del 1830, quando il 28 luglio il popolo scende in piazza coraggiosamente. Manifesto di propaganda politica, pregno di retorica, dotato però di una carica di autenticità e di un furore rappresentativo da riscattarsi e da entusiasmare. Si respira un sincero anelito democratico, che travalica l’impaccio dell’allegoria estraneo al gusto moderno; diviene prepotentemente l’archetipo della barricata, trasfigurata a simbolo di un sentimento collettivo. Il pittore fece parte della Guardia Nazionale e si ritaglia nel dipinto una parte di protagonista interpretando il personaggio col cilindro sul capo, l’intellettuale che imbraccia il fucile, fianco a fianco con l’operaio, mentre la massa dei rivoluzionari e l’ambiente circostante sono ridotti a poche ombre incerte, grazie a pennellate intrise di emozione e partecipazione agli eventi. Su tutta la composizione si staglia vigorosa la figura di Marianna, la rivoluzionaria dai seni al vento, che non conoscono la sconfitta, che conducono alla libertà, la invocano, la esigono, la proclamano, vi ci accompagnano il popolo. Ella avanza con impeto e veemenza sulla barricata, impugna un fucile ed il tricolore della patria, indossa il berretto frigio dei giacobini e non dà alcun peso al movimento che le fa scivolare la veste scoprendole il petto: sono i seni più coraggiosi della storia dell’arte, in grado di affrontare ogni pericolo e travolgere ogni ostacolo. Quelle mammelle rivoluzionarie, che non temono di affrontare il nemico, hanno una funzione catartica e catalizzano la liberazione dalle oppressioni e dalle frustrazioni, sia a livello collettivo che individuale. Sono poderose come un macigno, che schiaccia, mandando in frantumi, i nemici della libertà, politica e morale. Francesco Hayez, fotografo… di corte dell’aristocrazia ambrosiana ed abile regista di melodrammi privi di forza ideologica, raggiunse spesso la perfezione formale, anche se si limitò il più delle volte a mettere in costume dei manichini. Ripetitivi e privi di vita i suoi quadri di storia, l’artista si espresse a più alti livelli nella ritrattistica, una tematica che seppe esprimere con raffinata modulazione cromatica e chiaroscurale, dando corpo a figure romantiche e inquiete. Ancora più affascinanti sono le sue figure femminili, sensuali e peccaminose, che trasmettono malinconia e turbamento. Imprevedibile capolavoro è la Maddalena penitente (107), eseguito nel 1825 e conservato nella Galleria d’Arte Moderna a Milano, dove una santa dalle languide forme terrestri è placidamente adagiata su un lenzuolo di un virgineo biancore con alle spalle un panorama costituito da montagne scoscese ed invalicabili. Questa eterea bellezza mediterranea dal volto sensuale ed accattivante e dal seno che più che alla riflessione invita a sani propositi bellicosi, sembra guardarci con indifferenza. Il suo sguardo è trasognato, incurante degli affanni terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dal dipinto promana una dolcezza celestiale, serena, rassicurante che ci fa comprendere con quanta calma la santa abbia compiuto la sua scelta, sicura della bontà della sua decisione, illuminata dalla fede che tutto trascende, placando e spegnendo tutti i sentimenti ed i desideri ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina. Il suo seno emana una luce radiosa e possiamo essere certi che se potessimo conquistarlo non andremmo all’inferno, ma direttamente in paradiso. E’ del 1850 la Meditazione (108), di collezione privata, dipinto allegorico nel quale una ragazza, con il volto immerso nell’oscurità ci offre la vista di un seno maliziosamente protrudente dalla veste e folgorato da una luce abbagliante. Il candido attributo, sacra memoria di oscuri desideri, graziosamente esposto, contrasta con il libro, segno di saggezza e meditazione e la croce, simbolo di salvezza e di contrizione, mentre un’idea di peccato sembra balenare sul viso triste della fanciulla, assorto in pensieri ed elucubrazioni. Un aura di mistero avvolge la composizione, dominata da quello splendido seno del silenzio e della solitudine, che si staglia poderoso a dominare l’attenzione dell’osservatore, il quale non riesce e non vuole percepire la sottile allegoria ed il messaggio ideologico che l’autore volle imprimere nel dipinto all’indomani delle Cinque giornate di Milano del 1848, bensì coglie, alla vista di una forma così perfetta ed incantevole unicamente un brivido di voluttà e di desiderio. Honoré Daumier fu artista singolare e testimone incandescente dei suoi tempi. La Francia respirava una crescente libertà che, unita ad una forzata industrializzazione, produsse in breve tempo tre rivoluzioni 1830, 1848, 1870, cinque diverse costituzioni e quattro regimi. L’occhio caustico di Daumier trasferì nelle sue opere quegli anni sconvolgenti. Egli cominciò la sua attività come incisore, una tecnica che attraverso la stampa permetteva un’ampia diffusione delle idee e collaborò a riviste satiriche tra cui la più pungente era La Caricature, per la quale realizzò numerose vignette, che gli procurarono vari guai giudiziari, facendogli più volte conoscere anche la prigione. I suoi personaggi erano grotteschi ed intrisi da una profonda carica espressiva e denunciavano soprusi e diseguaglianze sociali, all’epoca molto diffuse. Verso i quarant’anni iniziò la sua carriera di pittore, con dipinti caratterizzati da tutti gli elementi presenti nella sua precedente attività di incisore: il tratto molto incisivo e netto, la deformazione espressionistica, la satira di costume oggetto di spietate caricature. Nella Allegoria della Repubblica che nutre i suoi figli (109), realizzato nel 1848 e conservato al museo d’Orsay, egli intende commemorare la vittoria repubblicana ed il rovesciamento di Luigi Filippo. Sollecitato da Courbet, egli partecipò con un bozzetto al concorso indetto dal governo provvisorio per un’immagine della Repubblica. Concorse assieme ad altri 500 artisti e fu prescelto dalla commissione che gli fornì anche un anticipo di 500 franchi. L’opera definitiva non fu eseguita per il ritorno al potere del partito conservatore, dal quale accettò l’offerta di sostituire il dipinto programmato con un casto quadro religioso per una chiesa di provincia. Il bozzetto si ispira ad un’iconografia antica di moda nel Rinascimento e colpisce per la monumentalità e per la forza espressiva, nonché per i toni caldi: rossi, bruni ed un verde un po’ traslucido, oltre che per la decisione e per l’ampiezza del tocco. I fantolini suggono con vigorosa avidità dalle spaziose e munifiche mammelle della donna - repubblica e ne traggono non solo il nutrimento per crescere sani e gagliardi, ma anche l’istruzione e la conoscenza dei propri diritti. Mai nella storia vi furono o vi saranno mammelle più generose e prolifiche di quelle create dalla fertile immaginazione di Daumier, un pittore rabbioso verso la triste realtà che lo circondava, ma, spesso e volentieri, triste e malinconico nel vedere le penose condizioni di tanta povera gente. Jean Auguste Dominique Ingres, fu pittore neoclassico o meglio classicista, grande ritrattista, ma soprattutto cantore della bellezza femminile, che fissò sulla tela in pose sensuali, solennemente e dolcemente nude, con un soffio d’Oriente, che in quegli anni, siamo nella prima metà dell’Ottocento, cominciava a fecondare gli schemi estetici occidentali. Egli con Delacroix dominò a lungo la vita artistica francese. Furono definiti dai fratelli Goncourt “I due gridi di guerra dell’arte”. Ingres fu alfiere del neo classicismo, Delacroix capofila del romanticismo. Ingres è stato definito da taluni critici campione dell’accademismo, non fu tuttavia un artista accademico nel senso deteriore del termine, essendo lontano da qualsiasi forma artistica del suo tempo, isolato nella tenace ricerca degli ideali di bellezza classica, che egli sapeva magistralmente cogliere ed interpretare. La Sorgente (110), conservata al museo d’Orsay, fu concepita a Firenze intorno al 1820 e fu poi dipinta lentamente nel corso degli anni per essere conclusa solo intorno alla metà del secolo. Essa costituisce una variante della Venere Anadiomene, anch’essa realizzata in un lungo arco di tempo dal 1808 al 1848 e dalla quale si differenzia per la posizione meno arcuata del braccio destro, che imprime un maggiore ritmo all’immagine. Il quadro si iscrive nella tradizione della mitologia greco romana, che personifica le sorgenti con una deliziosa fanciulla, rappresentante una divinità delle acque residente nelle fonti e nei fiumi, una naiade dal corpo armonico e puro, memore dell’iconografia classica delle virtù e delle divinità dell’Olimpo. Proprio questo senso di castità ispirò al poeta Theodore de Banville i versi della Naiade argentina, pubblicati nel 1861. La fonte e lo scorrere dell’acqua sono simboli di purificazione che diventano, quando sono associati all’immagine del vaso, evocazione dell’utero e del seno materno, archetipi della disponibilità all’amore ed alla fecondità. Contrariamente alla Brocca rotta, di Greuze, portata da una fanciulla smarrita, che mostrava così di aver perduto la verginità, Ingres è voluto risalire alle fonti pure della bellezza delle cariatidi greche ed ha cercato di raggiungere la perfezione delle forme femminili. Esposta a lungo nell’atelier dell’artista, la tela ricevette il consenso unanime dei visitatori, che apprezzarono la bellezza del colore e la purezza della forma. Il seno della fanciulla, scultoreo e compatto, concepito a regola d’arte secondo i calcoli più sottili dell’architettura, ricorda le grandi statue dell’antichità, la sua forma appare idealizzata e perfetta, ma è dolce e felice, mentre la linea predomina sul colore e la stabilità sul movimento. Il sapiente gioco di curve crea un’analogia palpabile tra la cascata dell’acqua e la delicata modellatura del corpo. Il Bagno turco (111), realizzato nel 1862, quando Ingres aveva 83 anni e conservato al Louvre, costituisce una sorta di summa delle numerose immagini femminili realizzate da Ingres nell’arco di quasi sessant’anni di carriera. Dall’opulenta bagnante di Valpicon, in primo piano mentre suona la chitarra, con il braccio levato maliziosamente sulla tastiera, che lascia scorgere l’audace stilizzazione del seno, alla figura che troneggia sulla destra con le braccia dietro la nuca, che riprende uno studio della prima moglie Madeleine Chapelle, eseguito nel 1815, fino ad una citazione dell’Angelica legata allo scoglio, per concludere con un altro nudo ispirato, nel volto sostenuto da una mano, alla seconda moglie Delphine Ramel. I costumi adamitici… dei suoi venerati greci, fonte primigenia della sua ispirazione, proseguivano imperterriti nel mondo islamico, cui stava rivolgendosi con curiosità l’attenzione dei romantici, suggestionata dai mirabolanti racconti dei privilegiati che avevano potuto ammirare le donne nude nel plus beau bain de Costantinople. La tela applicata su tavola nasce con una diversa forma e la successiva trasformazione in tondo costituì una trovata geniale, che valorizza appieno la struttura complessiva, conferendo una nuova dimensione al lento digradare dei corpi flessuosi, preziosamente scandito dall’alternarsi dei toni delle carnagioni, immersi in una densa atmosfera unificatrice. Come un testamento artistico le donne, muse ispiratrici, si offrono in una rassegna completa che conferma come, al di là delle diverse modelle, l’ideale di bellezza di Ingres fosse uno e costante nel tempo, il modello raffaellesco della Fornarina. L’opera è l’ultima e più perfetta elaborazione del tema del nudo femminile, esaltato in questi corpi così abbaglianti nelle poche, squillanti vibrazioni di nitido colore, nel quale ogni emozione si risolve vinta dalla suprema chiarezza dell’immagine. Il dipinto è una grandiosa silloge di anatomie femminili di una sensualità che rasenta il morboso e nello stesso tempo miracolosamente sorvegliati. E’ una sconcertante antologia di seni, di fogge diverse e nelle più varie positure, troppo piccoli o troppo grossi, a mela ed a pera, debordanti o appena accettati, insomma per tutti i gusti. Al dipinto, per la sua astratta plasticità e per la saldezza costruttiva della composizione intessuta da puri ritmi lineari, guarderanno i grandi maestri dell’Impressionismo, da Degas a Renoir e Cézanne e ne sentirà la suggestione, in pieno Novecento, perfino Picasso. Antoine Wiertz, pittore e scultore belga, acquistò vasta fama con una produzione che trattava con crudo realismo ed una ricerca di facili effetti grandi temi romantici. Dopo aver frequentato ad Anversa l’Accademia, si recò a Roma, dove studiò pittura antica e realizzò le sue prime tele a soggetto storico e religioso, per passare poi alla sua specialità: scene truculente e nudi femminili, raffigurati con effetti luministici di sapore surreale. La bella Rosina (112), conservato al museo di Beaux Arts di Bruxelles, è un muto colloquio tra una candida fanciulla, tutta nuda ed un gigantesco scheletro, che simboleggia l’inesorabile scorrere del tempo ed il nostro comune destino di mortali. I seni di Rosina, che fissa con stupore le vuote orbite dell’imponente scheletro, sono crapulosi e teneri, perfidamente tentatori e libidinosi e contrastano vivamente con il petto liscio della morte, che non possiede seni, perchè vogliamo credere che essi siano saliti al cielo assieme all’anima, senza subire l’insulto della putrefazione ed il lubrico appetito dei vermi, i quali spavaldi si intrufolano per tutto il corpo, scavando profonde gallerie. I seni dopo la morte cadono disarticolati e flaccidi, freddi, sbiancati, cerei, tristi per l’oltraggio della terra. Ben più triste però è il destino dell’uomo, al quale quei seni appartenevano e che anelava ad adagiarvisi comodamente per l’eternità, sicuro come un bimbo impaurito, che trova conforto solo sul seno della mamma. Saliti al Cielo con l’anima, si ricongiungeranno ai loro corpi marciti sulla Terra, miracolosamente restituiti al fulgore della giovinezza il giorno della Resurrezione, che sarà più esaltante del Big bang. Palpitanti e nudi fremeranno di nuovo dal desiderio e saranno tutti spumeggianti e folli, trasformando le donne in insaziabili peccatrici e conducendo alla pazzia ed al godimento gli uomini vissuti in epoche e generazioni diverse, impietriti ed ammirati per il rinnovato prodigio della creazione. Theodore Chasseriau introduce l’orientalismo e l’esotico nella pittura, un tema che avrà un lusinghiero successo, in contemporanea alle conquiste di possedimenti coloniali da parte delle grandi potenze europee. Il quadro capostipite del nuovo verbo è il Tepidarium (113) del museo d’Orsay, eseguito nel 1853, un concentrato di languore e di provocazione erotica, di fascino misterioso e di sinuosità di linee, con corpi scultorei quanto flessuosi, come quello della fanciulla in primo piano che, scoperto il seno dai variopinti veli trasparenti che lo ricoprivano, improvvisa una danza del ventre sotto gli occhi ammirati di una compagna, mentre altri seni poderosi, in ombra sulla sinistra, sono pronti all’esibizione ed a suscitare l’invidia delle meno dotate. La scena è ambientata nell’antichità, tra le piscine egiziane dove le cortigiane si preparavano all’amore. Nonostante la morale ed i costumi di quegli anni risentissero pesantemente del puritanesimo imperante, il soffio tiepido del romanticismo invita a rifugiarsi con la mente in mondi lontani ed a sognare scene di un passato ancora vivo nella fantasia, con immagini riservate e spigliate allo stesso tempo, remote ma vicinissime, sacre quanto invereconde. Jean Leon Gérome è raffinato cesellatore dell’anatomia femminile, il più brillante orientalista tra i pittori accademici francesi e volle sfidare i rispettabili membri della giuria del Salon del 1861 con un dipinto, Il Giudizio di Frine (114), oggi alla Kunsthalle di Amburgo, che rivisitava il celebre processo svoltosi davanti all’Areopago. La fanciulla, famosa etera vissuta ad Atene nel IV secolo a.C., come è noto, era stata accusata di empietà, per essersi spogliata in pubblico durante una festa, comportamento sacrilego che poteva essere punito anche con la morte. La pulzella, famosa per le sue poppe ritenute unanimemente le più belle della città, era recidiva, perchè in precedenza si era rifiutata di pagare una cospicua cifra di denaro ad alcuni notabili, con i quali aveva scommesso che avrebbe potuto sedurre qualsiasi uomo, ma trascorsa una notte con Senocrate, famoso come filosofo, ma anche per essere lento di chiamata…, dovette confessare pubblicamente che le sue arti non avevano sortito alcun effetto. Mentre l’avvocato difensore perorava la sua causa, Frine, con un colpo a sorpresa, mostrò orgogliosa il suo seno ai giudici, i quali, più dell’arringa, furono stregati e presi da una malia di persuasione ed anche da un sacro timore reverenziale al cospetto di un seno dalla bellezza divina, per cui la assolsero lasciandola libera di comportarsi come voleva. Gérome, con la sua fertile fantasia, apporta nel suo quadro qualche modifica alla leggenda di questa stupenda cortigiana, il cui decolleté era stato immortalato dallo stesso Prassitele ed oltre a prestare il suo volto al novello Cicerone, attribuisce al penalista l’idea di scoprire all’improvviso la sua formosa cliente lasciando esterrefatti i giudici. Alexandre Cabanel, artista accademico francese, dai modi pittorici virtuosi e dalle immagini stereotipate, ma pervase da un pathos sensuale, dipinse nel 1863 la Nascita di Venere (115), in collezione privata, un’opera che intendeva coniugare la sensualità di Boucher con la perfezione formale di Ingres. La tela fu acquistata da Napoleone III e ciò gli valse grande notorietà e numerose altre committenze. Venere è raffigurata con un incarnato dal candore abbagliante e in una posa voluttuosa, che dimostra l’insaziabile ardore del suo desiderio. La dea di sfolgorante bellezza era, come a tutti noto, un’antica divinità italica garante della fecondazione dei fiori, che fu assimilata dai Romani all’Afrodite dei Greci e nella nuova veste favoriva lo sbocciare della sensualità e gli amori illegittimi. La sua nascita, poeticamente raffigurata da Cabanel tra la spuma delle onde, sarebbe scaturita dal sangue versato nel mare da Urano, mutilato da Cronos con l’aiuto della madre Gaia, che gli procurò il falcetto fatale per la virilità paterna. Offerta ai voraci occhi dell’osservatore, con i seni turgidi dal desiderio, questa incontrastata dea della bellezza, circondata da una corte di servizievoli amorini si bea, languida e mellifluamente distesa, delle carezze del vento e del mare e sembra sorpresa dello scandalo che suscitò la sua esposizione al Salon, dove lo stesso Gauguin esclamò: ”Questa Venere è assolutamente indecente, odiosamente lubrica”. Eduard Manet, pur avendo ispirato con la sua opera l’Impressionismo, fu sempre orgoglioso della sua indipendenza. Per la sua pennellata rapida e l’uso di colori puri, oltre all’abitudine di prelevare i suoi personaggi dalla vita quotidiana, influenzò potentemente tutta l’arte moderna. Viaggiò a lungo e venne suggestionato dalle opere dei grandi maestri del passato, da Velazquez a Goya. Le sue prime opere caratterizzate da ampie pennellate furono spesso scene di genere, fino al primo grande capolavoro: Déjeuner sur l’herbe che fu esposta al Salone dei rifiutati, il nuovo spazio espositivo che Napoleone III aveva fatto aprire appositamente per gli artisti respinti dal Salone ufficiale, tempio dove imperversavano gli accademici. La tela, come è noto, rappresenta un picnic all’aria aperta con una donna che siede nuda, senza ombra di imbarazzo, tra due giovani borghesi vestiti elegantemente. Aspramente redarguito dai critici, che ritennero il quadro un oltraggio alle regole della prospettiva e della morale, fu viceversa osannato dai giovani pittori, che lo considerarono alla stregua di un manifesto di una nuova arte, che abbandona le preoccupazioni del rifinito e della velatura e rende con colori francamente contrastanti le zone di ombra e di luce. Al pari del Déjeuner sur l'herbe, l'Olimpia (116) di Manet è considerato uno dei nudi più esaltanti della storia dell'arte di tutti i tempi. Oggi al museo d’Orsay, fu esposta per la prima volta al Salon del 1865 suscitando uno scandalo senza precedenti e l'ilarità quasi generale. Per precauzione fu collocata molto in alto per essere al riparo dagli sguardi troppo ravvicinati dei bacchettoni, ma soprattutto dalla punta degli ombrelli di inferociti iconoclasti... Dai critici ne fu criticato il disegno e la pretesa di spacciare per una giovane aristocratica una volgare prostituta, che manda senza ritegno sguardi audaci ed invitanti allo spettatore. Manet nel delineare le piacenti fattezze della fanciulla si ispirò ai grandi maestri del passato: dalla Venere di Urbino del Tiziano, dalla quale derivò lo schema generale della composizione, alla Maja desnuda del Goya, dalla quale ricalca l'atteggiamento arrogante e sprezzante, il modellato realistico delle carni e la frontalità del soggetto. Lo straordinario richiamo sensuale del dipinto è incentrato nel seno nerboruto che attrae come una vertigine l'incauto osservatore che si soffermi più del dovuto sul suo incarnato dalle raffinate sfumature bianche, avorio e rosa, che sfumano nelle indistinguibili areole dei delicatissimi capezzoli. Le forme anatomiche, lussureggianti, ma nello stesso tempo armoniche, sono evidenziate da violenti contrasti di colore, accentuati dallo sfondo scuro, allietato dal virtuosismo del mazzo di fiori, un omaggio di un ignoto ammiratore di cotanta bellezza. I colori sono gioiosamente e generosamente trasferiti dalla tavolozza del pittore alla tela e tra questi risalta il rosso di alcuni petali, che fa vibrare il nastro al collo della fanciulla ed i fiori dello scialle. Dimostrazione irrefutabile della gioia di dipingere che si accoppia alla gioia di guardare un seno che non si riesce a dimenticare. Un altro petto da sogno, in grado di turbare i sonni di chicchessia, è il Nudo di giovane bionda (117), eseguito intorno al 1875 ed oggi al museo d’Orsay. Dipinto tra i più famosi di Manet, utilizza una modella della quale conosciamo solamente il nome di battesimo: Marguerita, ma che pare fosse molto ambita dai pittori, per la sua indiscutibile prosperità e per la sua opinabile facilità di costumi. La signora Manet nei suoi taccuini la confonde con un’altra modella Amelie Jeanne, anche lei dalle misure stratosferiche. L’artista con un raffinato gioco di luci rende l’incarnato porcellanato della fanciulla, dal volto triste ma dai capezzoli bellicosi. E per finire, adoperando la tecnica del pastello, Manet, nella Donna che si aggiusta una giarrettiera (118), eseguito nel 1878 e nella collezione Hansen a Copenaghen, ci illumina di immenso…con un seno esplosivo, che letteralmente straripa dal vestito per la gioia degli occhi e per fomentare pensieri bellicosi. La florida compattezza della carne vince ogni immaginazione ed intona un melodioso canto a nostro Signore, che ci ha voluto mettere duramente alla prova, fornendoci gli strumenti del peccato e lasciandoci come ciambella di salvataggio, unicamente, la possibilità del pentimento, pur col proposito di ricadere, quanto prima, nella dolcezza della tentazione. Gustave Courbet è una delle figure di spicco nel panorama figurativo francese dell’Ottocento. Pioniere del Realismo, una corrente che si opponeva al convenzionalismo dell’Accademia che trionfava al Salon, contribuì con la sua arte innovativa a spianare la strada all’Impressionismo. Il suo quadro più dirompente: l’Origine del mondo, suscitò le ire dei benpensanti, scandalizzati nel vedere realisticamente rappresentato il loro oscuro oggetto del desiderio, attraverso il quale erano venuti al mondo. Il suo dipinto più celebre: l’Atelier dell’artista, una galleria di personaggi di varie classi sociali riuniti ad osservare il lavoro del pittore, intento a fissare sulla tela le splendide fattezze di una deliziosa modella nuda, con le candide vesti ammucchiate ai suoi piedi. La tela di cui ci occuperemo è un trionfo del seno, un inno alla tosta consistenza delle carni, un cantico alla morbidezza delle linee ed alla somma perfezione della creazione divina. Una tenera quanto vigorosa esaltazione del nudo femminile, costruita con amorevoli pennellate di colore chiaro e splendente, una magia di toni e di sfumature per glorificare le forme opulente della sua modella prediletta. Donna tra le onde (119), eseguito nel 1868 e conservato al Metropolitan museum di New York, è un dipinto di palpitante sensualità, incentrato sul superbo seno di una fanciulla che emerge dai flutti ed orgogliosa espone alle carezze del vento la grazia di due emisferi prodigiosamente asciutti, culminanti in due areole di un rosa tenue ed evanescente. La posa è remissiva ed indifesa, mentre la sapiente positura delle braccia poste sulla testa accentua la perfezione delle linee, esaltata da un incarnato luccicante che contrasta con il ciuffo di timida peluria dell’ascella. Sono seni rigogliosi di salute e danno, palpabile, la sensazione della freschezza. Si ergono fieri ed audaci, pronti ad un assalto alla baionetta alle onde che cercano vanamente di ghermirli e lo stesso mare cede davanti al loro ardore come davanti ad una prua affilata e decisa. La fanciulla emerge dal mare come una novella Venere dall’ineguagliata bellezza e sembra voler rinsaldare l’antico legame simbolico che lega la donna all’acqua, trattato da scrittori ed artisti di ogni tempo ed ogni luogo e che fu tema ricorrente nelle opere di Courbet, il quale si serve in questa tela della sua modella preferita, immortalata nelle sue straripanti forme anatomiche in più dipinti e della quale non conosciamo l’identità. L’iconografia è resa audace da una vena di pulsante erotismo e si pone in una delicata linea di confine tra romanticismo e realismo. L’artista vuole evocare miti della classicità, dalle seducenti ninfe ad Anfitrite, dalle odalische dei serragli orientali alle perfide Baccanti e nella sua tela raggiunge una resa straordinaria nell’incarnato attraverso sottili variazioni di materia cromatica, lasciandosi alle spalle le fredde realizzazioni dei pittori accademici, statuari e frigidi, per approdare alla calda sensualità dei nudi resi celebri dal pennello di Renoir. Questo palpitante realismo fu il segno distintivo più ammirevole nella pittura di Courbet e fu il motivo del suo successo tra contemporanei e posteri. William Adolphe Bouguereau è un artista francese oggi poco noto. Allievo di Picot a Parigi ha percorso una dignitosa carriera di pittore accademico, che gli valse grande popolarità anche all’estero. Fu valente ritrattista ed autore di scene religiose e mitologiche, ma diede il meglio di sé nel fermare sulla tela splendide donne nude, impregnate da un purismo lezioso, ma sempre estremamente belle ed affascinanti. In Ninfe (120), di collezione privata parigina, l’artista non si smentisce e ci offre la vista di 13 splendide fanciulle nude immerse nell’ozio o tutto al più intente a trastullarsi in futili giochi o poco seriose discussioni. L’assenza degli uomini sembra non turbarle, ad ognuna di esse basta la vista dei seni delle compagne per placare ogni sete di voluttà e stanno sempre talmente vicine che i loro seni cozzano gli uni contro gli altri, producendo vistose scintille e rumorose deflagrazioni. Il bosco che le ospita non conosce alcuna perturbazione ed è perennemente allietato dai loro canti felici e da una speciale invocazione che le ninfe al mattino ed a sera intonano al cielo: una preghiera agli dei che conservi sempre a questi seni solitari, ma non meno sfolgoranti, lo splendore che meritano per l’eternità. Gustave Paul Dorè, disegnatore, incisore e scultore francese, deve la sua fama alle sue straordinarie qualità di illustratore. La sua grande popolarità, giunta intatta fino ai nostri giorni, è dovuta principalmente alle indovinatissime incisioni eseguite per le fiabe di Perrault ed a quelle, notissime e di potente presa evocativa, della Divina Commedia. E’ il primo in assoluto ad introdurre nel campo delle arti la figura dell’illustratore, favorita dalla diffusione della stampa. Non trascurò la tavolozza ed il piacere di trastullarsi col pennello. La dimostrazione lampante è questo dipinto, Oceanidi (121), di collezione privata berlinese, popolato da una miriade di fanciulle nude da sogno, in grado di turbare il riposo a qualunque uomo degno di questo nome. Secondo Esiodo, Oceano, figlio di Urano e di Gea, sposò la sorella Teti, da cui ebbe le Oceanidi, vispe fanciulle che vivevano in un’isola in mezzo al mare, sciacquandosi piacevolmente nelle onde, in cui i loro corpi beneficiavano di iridescenti riflessi e di un’eccitante frescura. Alcune di queste novelle sirene, prive di pinne, ma dai seni tosti e poderosi, si impegnano in un allegro girotondo marino, la cui vivacità, sdolcinata e lasciva, rimembra una allegra e vorticosa farandola. Queste fanciulle spensierate e felici abitano un’isola fuori da ogni rotta e non segnata su alcuna mappa, che può essere raggiunta solo con la più sfrenata fantasia. I seni di quest’isola sbocciano lontano dall’occhio e dalla libidine dell’uomo e di notte diffondono la luce che durante il giorno non si stanca di carezzarli dolcemente, per brillare poi quando il sole tramonta. La giornata trascorre tra canti e giochi ed esse si divertono coi loro seni, innocentemente, come bambine che passino le ore dilettandosi con delle palline di vetro. La vita che si svolge in questa isola incantata ed irraggiungibile è intensa, perchè le ragazze passano le ore dedite alla loro bellezza, alla loro nudità, ma soprattutto ai loro seni che sentono più di tutte le donne e percepiscono chiaramente che appartengono soltanto a loro. Non sono stati creati per soddisfare i desideri degli uomini, ma vivono una vita al di fuori del tempo e dello spazio. La loro esistenza giustifica e salva tutti i seni del mondo, impedendo ai maschi di impossessarsi della loro straordinaria vitalità, che è il segreto della loro magia. A volte di sera, quando il vento spira leggero, si sentono, come se provenissero da lontano, sommessi canti e petulanti litanie, sono le preghiere alla divinità che preservi per sempre questi seni e che essi possano luccicare per l’eternità. La nuova moda giunse anche in Italia e lo stesso Domenico Morelli, pittore napoletano austero ed incline a tematiche patriottiche e mistiche, ne fu contagiato e ci fornì, prima nel Bagno pompeiano e poi nel Bagno turco, una rilettura appassionata di un mondo che credevamo perduto e che viceversa può rivivere e palpitare sulla tela grazie al pennello di un’artista. Ma non sono questi i dipinti di cui vogliamo occuparci, anche se dotati di attributi femminili fuori del comune, esposti con malizia e compiacimento, bensì della Dama col ventaglio e delle Tentazioni di Sant’Antonio, nei quali il seno costituisce l’indispensabile epicentro della narrazione, senza il quale l’azione non potrebbe svolgersi. Il primo quadro, Donna col ventaglio (122), conservato nel museo del Banco di Napoli, raffigura Anna Cutolo, più nota tra gli artisti dell’epoca che se la contendevano come modella con l’appellativo di Nannina o Cosarella, ricercatissima per la sua bellezza sfolgorante e, pare, a detta dei maldicenti, per i suoi facili costumi. Nel dipinto la ragazza fa sfoggio della sua arma niente affatto segreta: il seno, pieno, sodo, ammaliante, di straripante procacità e di devastante erotismo, un seno da far impazzire ed infatti Vincenzo Gemito, il celebre scultore, che ebbe la non felice idea di sposarla, impazzì per la gelosia al pensiero che il busto di sua moglie fosse stato apprezzato, e non solo, da tanti suoi colleghi. Il dipinto è attraversato da una luce calda e sensuale, che sembra voler accarezzare le appetibili forme della fanciulla, dall’incarnato rossastro che risalta sul biancore delle lenzuola. Il ventaglio, giapponese, come andava di moda in quegli anni, dà un tocco di esotismo ad un scena borghese, mentre lo sguardo della fanciulla sembra annoiato ed incurante degli avvenimenti circostanti, ma possiamo star certi che il fuoco cova sotto l’apparente sottomissione, pronto a divampare e ad incendiare gli incauti che dovessero avvicinarsi troppo ad un seno straordinario ed irresistibile, che non si può guardare a lungo senza desiderarlo. Nelle Tentazioni di Sant’Antonio (123), conservato nella Galleria di Arte Moderna di Roma ed eseguito nel 1878 sotto la suggestione dell’omonimo poema scritto alcuni anni prima da Gustave Flaubert, il Morelli ci offre una difficile commistione tra simbolismo e realismo, tensione mistica e sottile erotismo, ben espresso nei seni della tentazione, dal biancore abbacinante, che sgusciano invitanti dal pagliericcio che fa da giaciglio al santo eremita, indeciso tra il baratro della perdizione alla sua sinistra e l’invitante fanciulla sulla destra, un tormento tra austeri richiami dello spirito e lascive promesse della carne, che avrebbero trovato impreparato lo stesso Amleto. Il monaco anacoreta non riesce più a ragionare, ma sembra delirare, madido di un sudore freddo che lo sconquassa e fa apparire ancora più calda ed invitante la diavolessa dalla pelle rosata e dal seno turgido e prosperoso da risvegliare i sensi sopiti di chicchessia, dai capelli rossi come le fiamme dell’inferno e dalle mammelle straripanti sotto la stuoia, mentre una delle sue complici sorride scioccamente ed altre immagini di donne tentatrici si apprestano a fuoriuscire dal buio della roccia ed a popolare gli agitati sonni del futuro santo. Le diaboliche ragazze sono sovrapponibili alle creazioni allucinate di Klimt e, siamo negli stessi anni, sorge spontaneo il dubbio se l’artista viennese abbia visto la creazione del napoletano e ne abbia preso ispirazione o viceversa. Al filone orientalista ed esotico si iscrisse convinto anche Mariano Fortuny, artista catalano caliente e vero mago della tavolozza in grado, con una cromia calda e luccicante, di evocare mondi lontani difficili da raggiungere nella realtà, ma a portata di mano della fantasia. Nell’Odalisca (124) del museo Nazionale di Catalogna a Barcellona, giocando sul contrasto tra il biancore del corpo nudo della fanciulla e la figura scura dell’arabo che, defilato in un angolo, suona malinconicamente un liuto, rievoca un’atmosfera di traboccante erotismo e di fascino misterioso. La giovane donna, mollemente adagiata su di un letto spazioso con lenzuola ricamate e variopinte coperte, scimmiotta immortali prototipi della storia dell’arte, dalla Venere di Tiziano alla Maja desnuda di Goya, fino all’Olimpia di Manet, senza raggiungerne la preziosità materica, ma il suo seno statuario gareggia alla pari con le celebri rivali ed è talmente turgido ed eccitante da far rischiare all’incauto osservatore un orgasmo visivo. Ad un ignoto pittore napoletano della seconda metà del secolo XIX appartiene la Balia (125), un dipinto conservato in collezione privata a Padova, con una firma apocrifa di Domenico Morelli apposta da un falsario. L’artista si ispira alla produzione del maestro intorno agli anni Sessanta, quando vi è un fecondo confronto tra proposte napoletane e fiorentine. La giovane puerpera, dal petto opulento, sbottonandosi la camicetta, mostra le mammelle empie allo sguardo indagatore del medico, che deve valutare la qualità del suo latte. Il sanitario, per quanto abituato a tali dimostrazioni, rimane sorpreso dalla magnificenza dell’offerta e, sorridendo compiaciuto, le tocca con la stessa attenzione e lo stesso riguardo che avrebbe riservato un gioielliere a delle pietre preziose che gli fossero state offerte. Rimane soltanto un attimo incerto davanti alla leggera tumefazione delle areole, che presentano quel doloroso gonfiore provocato dai morsi dei bimbi, ai quali spuntano i denti quando ancora poppano e cercano disperatamente il calore della mammella ed il caldo spruzzo che generoso fuoriesce dal capezzolo. Anzi rilascia alla fanciulletta un certificato da poter esibire in giro della bontà di questi seni rigogliosi e nello stesso tempo appetitosi, in grado di placare la fame primigenia ancora per tanto tempo e che oltre all’indispensabile nutrimento forniscono luce abbagliante all’ambiente come due potenti fari di automobile. Queste comparazioni sono oggi divenute eccezionali in un epoca che non conosce più il baliatico, soppiantato dalla insana abitudine di somministrare latte artificiale ai nuovi inquilini della Terra. Un perfido tradimento della natura ed una assurda mistificazione, dettata dall’estetica e dall’egoismo, che ha il solo risultato, oltre a privare il neonato degli indispensabili ed insostituibili anticorpi, di abituarlo ai cibi artefatti della nostra civiltà, contrassegnata da eccessiva velocità e da consumi scriteriati. Gustave Moreau, pittore francese, è uno spirito visionario dotato di una potente fantasia. Egli trasferisce abilmente sulla tela, con uno stile personalissimo, l’intreccio di passioni che si agitano nella sua mente. La sua è una pittura carica di allusioni simboliche, in parte affine a quella dei Preraffaelliti inglesi, dalla quale si differenzia per una vena di sottile sensualità. Ebbe una produzione copiosa, cercando costantemente preziosità materica e colorito brillante e trattando prevalentemente temi mitologici o storici intrisi di intenti simbolici ed esoterici. La sua visione del mondo è filtrata dall’anelito mistico sublimato nell’erotismo, dall’eccitazione dei sensi e dall’ansia dell’eternità. La sua pittura è il riflesso di struggenti viaggi della fantasia resi sulla tela con vigore ed entusiasmo, tra fantasmagoriche iridescenze ed inverosimili torsioni muscolari. I suoi dipinti trasmettono l’impressione di un eccitato brulichio di personaggi in preda ad inebrianti sensazioni ed in cerca di una valida ragione all’esistenza. Moreau già ai suoi tempi venne definito il pittore della Salomè, figura biblica che esercitò un irresistibile fascino sulla sua creatività. Egli la raffigurò insistentemente immersa in un’architettura orientale, solenne e ricca di particolari decorati, mentre era intenta nella sua danza flessuosa ad ammaliare Erode, per chiedergli poi in dono la testa di Giovanni Battista. Lo scintillio delle esigue vesti, la vaporosità dell’atmosfera esotica, la profusione di elementi rituali e l’imperiosità dei gesti donano alla fanciulla, crudele e sensuale al massimo grado, un grande potere di suggestione che incarna al meglio il clima decadente dei circoli intellettuali simbolisti della fine dell’Ottocento, trovando infine nelle opere di scrittori come Oscar Wilde il corrispondente letterario. A differenza della grande composizione di Los Angeles questa versione di Salomé che danza davanti ad Erode (126), del 1876, conservata al museo Moreau di Parigi, conosciuta anche come Salomé tatuata, si concentra sulla figura seduttiva della splendida fanciulla, la quale mediante il movimento sinuoso del corpo, decorato di raffinati tatuaggi dal significato simbolico, invoca la testa del Battista. Il pennello dell’artista si bea nella definizione delle forme serpentine di un’eroina languida, disperatamente affascinante, nei suoi incandescenti bagliori luminosi più delle gemme d’Oriente. I tatuaggi fanno risaltare lo splendido seno e pare che lo esaltino più di un medaglione tempestato di pietre preziose, lasciano su quelle piccole dolci protuberanze un delicato lavoro di stilizzazione con tanti delicati arabeschi che innalzano il seno fino al delirio della voluttà. Il centro della composizione verte intorno alle forme aggraziate e scattanti dell’audace giovinetta, mentre gli altri personaggi, così come l’ambientazione esotica del palazzo di Erode, sono relegati in un piano inferiore, diventando lo sfondo oscuro e misterioso nel quale si attua la terribile richiesta. Charles August Mengin, pittore francese deve la sua notorietà ad un quadro raffigurante Saffo (127), eseguito nel 1877 e conservato a Manchester nella City Art Gallery. Il dipinto è un prototipo di bellezza romantica, un misto di cuore e ragione, di riflessione ed impulso, di piacevolezza intrisa di malinconia. Esso raffigura la poetessa, dai lunghi capelli e dal morbido seno, che da poco, accompagnata da uno strumento musicale, ha declamato una struggente poesia sulla verginità:”Come quel dolce pomo rosseggia in cima al ramo, alto, sul ramo più alto, e se ne scordano i coglitori di mele, anzi, non se ne scordano, ma non riescono a raggiungerlo”. Per chi ama la poesia e l’amore, Saffo è un mito senza luogo e senza tempo e la sua voce, straordinariamente limpida ed intensa ci giunge dalla Grecia arcaica, dove a Lesbo intorno al 650 a.C. ella è vissuta, trascorrendo la giovinezza tra le fanciulle delle famiglie nobili. La sua sensibilità le ha permesso di cantare l’amore ed i più profondi turbamenti dell’essere, con versi immortali che esprimono le vibrazioni sottili e tormentose dei sentimenti ed il turbamento dell’amore tra donne. Il tema dominante delle sue liriche è la passione vista come forza che sconvolge i sensi e la mente e che trova il fuoco dell’ispirazione nella gelosia e nella contemplazione del corpo delle giovani fanciulle. Il suo linguaggio è sempre raffinato e prezioso, ricco di immagini luminose e Saffo è divenuta nei secoli l’orgogliosa vessillifera dell’amore omosessuale. Il suo sguardo è triste e lo splendido seno attende ancora una mano maschile che lo risvegli dal lungo letargo e sappia, carezzandolo delicatamente, produrre quella strana sensazione, acre e caparbia, che faccia fremere ed annunci che l’ora è giunta. Ma i seni di Saffo sono insensibili alle mani maschili e riderebbero freddamente se qualcuno pensasse di poterli condurre sulla retta via. Diverrebbero due gelide spugne insensibili, per contrastare l’allegria frenetica e vibrante di chi volesse trastullarsi con essi. Henri Gervex, pittore accademico francese, è artista poco noto, ma in grado di realizzare un grande capolavoro: Rolla (128), realizzato nel 1878 e conservato al museo di Bordeaux, una scena drammatica intrisa di erotismo e sensualità. E’ il momento che i pittori specialisti del nudo femminile entrano in rotta di collisione con la fotografia, in grado di fissare l’attimo fuggente, in concorrenza a sua volta con la nascente cinematografia, che si serve di eccitanti scenografie ed abili sceneggiature per descrivere intrighi e passioni, amanti appassionati e mariti traditi, donne fatali e audaci ninfette, tutte alle prese col demone del sesso e del desiderio sfrenato. Nel dipinto di Gervex, un trionfo di colori smaglianti, che contrastano con le lenzuola bianchissime e l’incarnato madreperlaceo della candida giovinetta dai seni acerbi, in pochi attimi si consumano sesso e tragedia, ispirati al celebre poemetto pubblicato nel 1833 da Alfred de Musset, che prende nome dal protagonista maschile: Rolla, il quale, come ben si evince dalla tela, da poco ha placato le novelle brame sessuali della fanciulla. Egli è un giovane rotto a tutti i vizi, scriteriato eroe della lussuria, aduso ai più raffinati piaceri della carne. In tre anni ha dissipato un ingente patrimonio e con l’ultimo denaro, inseguito dai creditori, si paga un notte di piacere con Maria, una ragazza quindicenne, ancora vergine ed ingenua, spinta alla prostituzione dalla matrigna. Al mattino Rolla è infinitamente triste davanti alla miseria della sua vita ed incredulo davanti alla beltà di un fiore appena reciso. Confessa alla ragazza di volerla fare finita e Maria gli offre per dissuaderlo una preziosa collana d’oro di famiglia che gli permetterebbe di saldare i debiti. Purtroppo il veleno sta già facendo il suo corso, una bugia rassicura la fanciulla che si riaddormenta in una languida posizione, pronta ad un rinnovato amplesso ed il giovane si allontana per andare incontro al fatale ed ultimo appuntamento con la morte. Gervex è pittore di tale abilità da gareggiare alla pari con la fotografia e la dimostrazione lampante è il dipinto Prima dell’operazione (129), eseguito nel 1887 e conservato al museo d’Orsay di Parigi, che descrive all’opera il famoso dottor Pean nell’ospedale di Saint Louis, pochi minuti prima di intraprendere una mutilante mastectomia. Una giovine donna affetta da cancro della mammella giace immobile, completamente nuda, sotto lo sguardo indagatore dei medici che la esaminano prima della terribile amputazione. I seni dolenti nella malattia grave sono i più tristi che si possano immaginare, l’uomo non osa toccarli per timore di un inesistente contagio, eppure spesso appaiono ancora così soffici e belli ed il pensiero che verranno scalfiti dalla crudele lama del bisturi può condurre alla pazzia. E quando la speranza svanisce bisogna salutarli per l’ultima volta con una carezza d’addio, oggi sul torace della donna amata, domani nel secchio della spazzatura. La novella amazzone non sarà più la donna di prima, l’uomo cercherà sempre nel suo petto il seno scomparso ed a perpetuare il ricordo rimarrà sempre, indelebile, quell’odiosa cicatrice, un sottile ma crudele filo rosso, che attraversa il torace lì dove era entrato il coltello. Tutti i giorni in tutto il mondo migliaia di seni malati cadono inesorabilmente sotto la mannaia del chirurgo, mammelle abitate da un’odiosa malattia che le divora, pasciandosi beata della loro preziosa materia, un sacrificio necessario a prolungare la vita e la speranza, orrendo olocausto per placare la più insidiosa delle malattie, che si trastulla beata, albergando nel più desiderato anfratto che fu mai creato. Pierre Auguste Renoir è tra i più grandi artisti di tutti i tempi. Dopo un periodo trascorso come artigiano decoratore entra nell’atelier di un pittore accademico e poi. incontrati Monet e Bazille, comincia a dipingere en plein air nella foresta di Fontainebleau ed a schiarire la sua tavolozza. La sua vita si divide in due periodi, da giovane egli sogna di diventare pittore, poi, divenutolo, farà sognare ad occhi aperti generazioni di osservatori incantati delle sue realizzazioni, che trasmettono felicità ed ottimismo. Crea una nuova immagine del mondo, in un accordo felice di impressione visiva e di emozione sentimentale. Dopo i primi paesaggi impressionisti si orienta verso il ritratto e la figura, divenendo il cantore della ricca e gaia borghesia francese dell’epoca, ritratta in scene corali, oppure intime e sensuali. Intorno al 1880 Renoir si innamora di una sua modella, Aline Charigot, che diventerà sua moglie e con la quale intraprenderà un lungo viaggio in Italia, che lo porterà a discostarsi dal linguaggio impressionista. La visita dei musei italiani sarà foriera di un ritorno alla precisione disegnativa ed alla tradizione dei grandi maestri veneti. Sua moglie è una giovane di straordinaria bellezza, dai lunghi capelli biondi e dal seno sodo e prominente, una virtù… che faceva letteralmente impazzire l’artista. “Se non esistesse il seno non avrei scelto di fare il pittore, quando ne ho dipinto uno, se ho voglia di toccarlo e di pizzicarlo, vuol dire che ho concluso bene il mio lavoro”. Era la frase che Renoir amava ripetere fino alla noia. Nella Bagnante bionda (130), eseguito nel 1881 e conservato a Torino nel museo della collezione Agnelli al Lingotto, la prosperosa signora con sullo sfondo il mare di Napoli è proprio Aline, la novella signora Renoir, ripresa in una vigorosa posa plastica, con i seni in bella evidenza, che gareggiano alla pari con la mole del Vesuvio che si intravede in lontananza. Renoir nel dipinto è attento alla lezione dei classici, Tiziano e Rubens sono i suoi numi tutelari, ma egli rielabora i loro insegnamenti alla luce delle nuove sperimentazioni dell’Impressionismo. Egli amava il corpo femminile in tutte le sue minime sfaccettature e questa inclinazione si accentua a partire dai quarant’anni divenendo una vera e propria ossessione nella tarda maturità. La tela napoletana è basata su toni e colori caldi, con una predominanza di rossi e di gialli e contorni che si stemperano nella luce. Nel periodo che va dal 1881 all’87 Renoir si dedica al tema delle Bagnanti, di cui farà oltre 40 versioni, che avvicinano il suo stile ai modelli classici della pittura italiana. Lentamente i suoi grandi nudi femminili somigliano a ritratti di dee pagane dalle forme straripanti ed opulente. Egli sa leggere nell’animo delle donne che trasferisce sulla tela con i loro languori, i loro dolci capricci, la loro inquietante sensualità. Talune volte impiega una giovane modella dagli occhi ed i capelli nerissimi e dal seno favoloso, Suzanne Valadon, ma, scoperto dalla moglie Aline in un contatto tutt’altro che professionale, non potè continuare ad usufruire dei suoi preziosi servigi… Nel grande dipinto Bagnanti (131), realizzato nel 1887 e conservato a Filadelfia in collezione Tyson, di cui esistono alcune repliche di dettagli di altissima qualità, l’artista testimonia i suoi interessi culturali nel periodo successivo al grande decennio impressionista: un nuovo e rinnovato studio della forma e del disegno, coniugato ad un’ebbrezza vitale e ad un solare gusto dell’esistenza. Impiega quasi tre anni per finire la tela e per trasferire su di essa la sensazione del piacere e dell’ottimismo. La sensualità dei suoi nudi è attenuata dall’espressione pensosa, quasi assente delle fanciulle. Nelle sue bagnanti non vi è passione, né traccia di erotismo, ma solo la pura e semplice gioia di vivere a stretto contatto con la natura, tra i palpiti di una luce tenera e delicata. Le sue figure, in perfetta sintonia con l’ambiente, vibrano di una stessa panica emozione, immesse nel grande flusso della vita naturale. I seni delle sue signore, che si crogiolano indolenti in pose leziose ai raggi del sole dopo il bagno ristoratore, sono un’antologia di forme e dimensioni, dalla scattante pera della fanciulla a sinistra, all’abbondante mela della sua dirimpettaia, ma sono seni docili, resi tranquilli dalle numerose abluzioni, che tendono a sopprimere o mitigare le loro follie. Diventano audaci solo quando affrontano l’acqua, verso la quale tendono desiderose le braccia. Il freddo li spaventa, li fa divenire piccoli, retratti ed il capezzolo si ritira timoroso, formando un avvallamento là dove svettava una sporgenza. Usciti dall’acqua, riacquistano coraggio e dimensioni e si incamminano orgogliosi verso la riva, giulivi e paonazzi per la vigorosa vasocostrizione e solo asciutti riprendono una realtà più intemperante, desideri più chiari ed a volte impetuose ribellioni. La carezza del sole poi lentamente li acquieta e trascorrono beatamente ore ed ore in paziente abbronzatura, anche se, per incanto, uno spiraglio nella valle che li divide potesse parlare, rivelerebbe un impeto segreto che non riescono in alcun modo a tacitare. Negli ultimi anni della sua vita una grave forma di artrite immobilizzerà Renoir quasi del tutto, ma egli continuerà ad amare la vita e dipingerà fino alla fine, addirittura facendosi legare i pennelli alle dita oramai paralizzate o limitandosi a guidare le mani di un suo assistente nella lavorazione delle sculture. La vista di un seno nuovo, giovane e sodo sembrava resuscitarlo. La moglie con pazienza e rassegnazione raccontava che egli sceglieva le domestiche in base alla loro pelle, che doveva assorbire bene la luce e negli ultimi anni, vecchio ed esausto, bastava la vista di un corpo nudo per dargli energia e fargli prendere di nuovo con rinnovata lena il pennello. Max Klinger, pittore, scultore e grafico tedesco, allievo di Bocklin è tra i protagonisti della corrente simbolista. Amò imprimere nelle sue tele una molteplicità di simboli, modelli, idee filosofiche e religiose, mentre quando si cimentò con la scultura la rinvigorì con la forza dell’artista classico, antico e rinascimentale. Visse a Parigi ed a Roma, dove fu attratto dalla natura e dai poderosi monumenti. La sua arte visionaria esercitò una profonda influenza su De Chirico. Egli riassume nelle sue opere due differenti filoni culturali: da un lato il mondo moderno tedesco, dall’altro il mondo antico greco romano, che si esprime nella grandiosità delle sue opere. Nel 1902 realizzò a Berlino il grande monumento a Beethoven, raggiungendo la massima espressione plastica, che gli valse una diffusa notorietà internazionale. In vita godette di una fama notevole, ma dopo la morte, avvenuta nel 1920, la sua opera fu ritenuta superata dalla critica e cadde nel dimenticatoio. Soltanto dopo la grande mostra retrospettiva organizzata a Lipsia, sua città natale nel 1970, in occasione del cinquantenario dalla morte, riacquistò l’attenzione che meritava, non solo come pittore, scultore ed acquafortista, ma anche quale filosofo, scrittore, musico e poeta. Nel Giudizio di Paride (132), eseguito tra il 1885 e l’87 e conservato al Kunsthistoriches museum di Vienna, Klinger rivisita in maniera spiritosa ed originale la mitica gara tra dee per la palma di più bella e raffigura le austere divinità, prive di alcun segno distintivo che le caratterizzi, presentarsi, completamente nude, l’una dopo l’altra, all’occhio scrutatore del principe troiano, facendo leva unicamente sul fascino dirompente dei loro attributi femminili, tra i quali il seno occupa la posizione principale. In genere i dipinti rappresentano la scena con le divinità affiancate, mentre l’artista tedesco le fa sfilare in un’ideale passerella, a simulare ante litteram un moderno concorso di bellezza senza veli, che cadono al momento della verità. Come è noto Venere sarà vincitrice, ma non perchè offre in sposa a Paride Elena, la donna più bella, ma in virtù del suo seno sfolgorante, una saetta in grado di trafiggere mortali ed immortali senza remissione. Paul Cézanne, pittore francese, prova un grande rispetto per la pittura antica e non si lascia sedurre dal puro gusto per la luce ed il colore. Col tempo si allontana sempre più dagli impressionisti e realizza uno stile fatto di solidi geometrici regolari, operando una mirabile sintesi tra volume e colore. In vita non raggiungerà il successo e solo dopo la morte gli sarà riconosciuto il ruolo di fondamentale precursore dell’arte moderna. Si dedicò alla natura morta, al paesaggio, ai ritratti, e creò una serie di tele dedicate al tema dei bagnanti. Decine di quadri dal 1870 fino al 1905, un anno prima della morte. E sono questi soggetti che ci fanno comprendere il senso della sua arte, questi nudi così lontani dal piacere sensuale tipico degli impressionisti, deformati nelle linee e nei volumi e costruiti con un impianto severo, a tal punto da dare la sensazione che l’artista voglia strappare alla natura il segreto della struttura essenziale delle forme viventi. Nelle Cinque bagnanti (133), realizzato tra il 1885 e l’87 e conservato al Kunstmuseum di Basilea, la composizione, molto semplificata, è incentrata sulle figure femminili che si impongono con la loro severa monumentalità. I corpi nudi completano l’unità architettonica del paesaggio semplificato al massimo. Le donne appaiono fuse con gli alberi che le circondano, mentre il colore presenta cadenze ritmiche più marcate e domina il disegno sottostante. In questa serie di dipinti la tastiera cromatica assumerà un’importanza sempre maggiore, fino a divenire un puro pulsare dinamico di emozioni, con le linee che vibrano con la stessa energia delle note di un immaginario pentagramma. L’ispirazione per questa tematica parte da lontano, dalle scene mitologiche rinascimentali col Bagno di Diana e delle sue ninfe, e si prolunga per buona parte dell’Ottocento francese, con le tele di Ingres e Manet. Cézanne funge da spartiacque nella storia della pittura, anticipando il cubismo attraverso la semplificazione dei volumi e la grafica espressionista attraverso l’insistenza dei contorni. I seni delle bagnanti di Cézanne sono pieni e sfuggenti, orgogliosamente esposti o maliziosamente celati, sono floridi e rubicondi e ben si intonano con le opulente forme anatomiche. Si espongono con schietta sincerità e mentre i volti delle fanciulle si fanno sfumati essi acquistano spazio ed importanza. La presenza simultanea di tante ragazze in fiore, splendidamente nude, innalza la temperatura dell’aria, che diventa elettrica ed eccitante e, respirata a pieni polmoni, induce alla serena pace dei sensi. Edgar Degas, figlio di un banchiere nato a Napoli, occupa un posto particolare nel panorama della Parigi impressionista. Infatti, egli, pur aderendo alla nuova corrente, svolse un percorso artistico molto personale, prediligendo il lavoro in atelier, più che la pittura en plein air. Amò ritrarre la Parigi notturna ed il mondo dello spettacolo e delle corse dei cavalli, ma col passare degli anni non avrà occhi che per le donne, con un debole per le ballerine, e le ritrasse spesso dal buco della serratura nei momenti più intimi, entrando meritatamente tra i voyeur, senza entrare nel merito dell’accusa, avanzatagli dalle cronache del tempo, di incallito pedofilo. Fu anche abile scultore e convinto assertore dell’importanza del disegno. Usò spesso la tecnica del pastello, come nella Donna che si spugna nella tinozza (134), eseguita nel 1886 e conservata al museo d’Orsay. L’opera fa parte di una serie di pastelli raffiguranti donne alla toeletta, un gruppo di nudi che l’occupò intensamente per circa dodici anni, dal 1878 al 1890 ed al quale dedicò le migliori energie. “Voglio presentare la bestia umana che si occupa delle sue cose, una gatta che si lecca” amava ripetere Degas ai suoi interlocutori “Le mie figure femminili sono esseri semplici, che si occupano di piccole cose, tra queste il lavarsi è una delle principali.” Questa chiara presa di posizione alla lunga incontrò il favore della critica, fino ad allora legata ai nudi accademici che imperversavano al Salon. Nel pastello in esame l’artista porta la tecnica a nuove ed ineguagliate vette di virtuosismo, mescolando tempera ed olio raffinato per ottenere nuovi effetti di tessitura e di luce. L’originalità dell’organizzazione spaziale, in cui il piano della natura morta taglia arditamente lo spazio occupato dalla tinozza, è influenzato dall’arte giapponese alla quale in quegli anni molti pittori si ispiravano per sperimentare nuove formule compositive. La scena è pervasa da una sensualità sottile, con la spugna, beata lei, che si intrufola dappertutto per lavare delicatamente come la più dolce delle carezze. Una delizia per gli occhi vederla dilatarsi e farsi poi piccolissima, che piacere straordinario stringerla attorno ai teneri capezzoli e strofinarli senza sosta quasi a lucidarli e gli stessi seni sembrano divertirsi, gonfiandosi, arrotondandosi e dilatandosi come spugne naturali. E che delicata sensazione far scorrere un rivoletto di acqua gelata da dietro alla nuca e farlo spegnere tra quel solco che delimita, divide e dà nome a queste magistrali creazioni di Dio. Auguste Rodin fu l’espressione più alta della scultura europea nella seconda metà del XIX secolo e la sua opera fu apprezzata dagli scultori delle generazioni successive. Dopo aver seguito i corsi alla scuola di arti decorative, fu bocciato all’esame di ammissione alla scuola di Belle Arti, per cui si dovette per lungo tempo contentare di un modesto lavoro di decoratore. Rifiutato al Salon decise di partire per l’Italia per studiare da vicino il divino Michelangelo. Nel 1880 ebbe un importante commissione: l’esecuzione della gigantesca porta bronzea per l’erigendo museo di Arti decorative. Rodin scelse un soggetto dantesco, donde il nome di Porta dell’Inferno e lavorò fino alla morte nel tentativo, mai condotto a termine, di realizzare una grande allegoria della dannazione attraverso la rappresentazione del nudo. Un romantico e caotico insieme di figure, memori del Giudizio universale di Michelangelo e del pathos della Divina Commedia. I lavori lo impegnarono per un decennio e quando tutto era pronto fu chiaro che il museo non si sarebbe costruito. Benché incompiuta la Porta dell’Inferno è la tappa più significativa della sua carriera ed i blocchi che egli aveva apprestato furono venduti isolatamente. Tra questi gruppi di figure anche la sua opera più celebre: il Bacio. Nel Fugit Amor (135), eseguito nel 1886 e conservato al museo Rodin di Parigi, del quale mostriamo un particolare, in esso più vivace si dispiega l’attrazione dell’amante verso il tenero petto della fanciulla, si esalta la disperata tensione dell’uomo e la fuga timorosa della giovinetta, in un crescendo dinamico che non infrange l’armonia dei loro gesti ed il rigore compositivo del gruppo. Di ottimo livello la defizione delle forme, che non scadono mai nella leziosità e nel compiacimento della pregevole materia. Il marmo in questione è espressione pulsante del linguaggio plastico dell’artista, alla cui formazione, oltre alla lezione michelangiolesca, non furono estranee influenze della scuola borgognona, in grado di fissare le immagini della sua visione con modi analoghi a quelli ottenuti dagli impressionisti in pittura. I piani sono inondati da violenti colpi di luce, che mettono in vibrante tensione le superfici, mentre il seno rappresenta l’acme del desiderio, verso cui si protendono vogliose la mani bramose di voluttà. Georges Seurat porta alle estreme conseguenze la tecnica pittorica degli impressionisti. Colto e raffinato morirà ad appena 32 anni, solcando come una meteora il firmamento della storia dell’arte. La grande novità che introdusse furono i puntini, da cui il nome di puntinismo o pontilisme, alla francese, dato alla sua tecnica, basata sull’accostamento di due piccoli puntini di colori primari, che l’osservatore identifica come un’unica macchia di colore. Egli giunse a risultati di massima brillantezza utilizzando il melange optique, ossia la mescolanza ottica. Seurat fa tesoro delle nuove teorie fisiche sulla scomposizione del colore per mettere ordine tra le anarchiche particelle impressionistiche. Utilizza una trama fitta e regolare di colori puri, disposta in maniera tale da ricomporsi nell’occhio dell’osservatore. Accosta toni più o meno luminosi, colori freddi e colori caldi, convinto di un parallelismo tra il mondo delle forme e quello dei sentimenti, come segnalato in egual misura in quegli anni da scienziati positivisti e letterati simbolisti. Senza dimenticare che le figure raggelate e statiche delle sue composizioni sono debitrici dello studio e della conoscenza dei primitivi toscani, in particolare degli affreschi di Piero della Francesca. Seurat aveva visto giusto, preannunciando le strade maestre che sarebbero state seguite dalla nostra civiltà delle immagini; creò un mondo illuminato da una luce immobile, immersa in un’atmosfera già metafisica, un mondo dove le conquiste della ottica vengono dispiegate in lirica ed in una suggestiva ed originale visione della realtà. Le Modelle (136) fu realizzato nel 1888 ed è conservato a Filadelfia presso la Barnes Foundation, del grande dipinto esiste una replica di minori dimensioni caratterizzata da un puntinismo meno minuto alla National Gallery. Il quadro è illuminato da una luce mattutina e raffigura l’atelier dell’artista ingraziosito dalla presenza di tre donne nude a grandezza naturale, anche se, in verità, si tratta della stessa modella in tre pose differenti. L’intera parete a sinistra della tela è dominata dalla parte inferiore sinistra della Grande Jatte, una delle più famose opere di Seraut, mentre a destra sono appesi altri suoi dipinti non identificabili. La luce è soffusa e predominano i toni del blu e del rosso. Una sorta di congelamento del tempo rende immobili e statiche le figure, le quali appaiono fissate per l’eternità e percorse da una calda vibrazione cromatica, tendente ad organizzarsi in forme stagliate nettamente. Le pose sono tutte egualmente attraenti, di spalle, di fianco e di faccia e rappresentano idealmente diversi momenti della svestizione, prima la maglietta, poi le calze ed infine, finalmente, nella sua innocente nudità, con due mani a ricoprire castamente il giardino delle delizie, mentre sono offerte spavaldamente all’osservatore due piccole poppe sfolgoranti, due agili colline del paese delle fate, due seni piccoli ma ribelli, pronti a gonfiarsi ed a fremere, prodigio incantato dell’umana natura. La carica di sensualità risulta esaltata dallo stridente contrasto tra le signore elegantemente vestite all’ultima moda nel dipinto alla parete, in preda ad una solitaria malinconia e questa fanciulla che vuole simboleggiare l’erotismo e la gioia di vivere, quando si hanno venti anni ed un corpo battagliero e desiderabile. Franz von Stuck, pittore tedesco, si affermò al partire dal 1890 grazie ad una serie di quadri, tra i quali il Peccato, contrassegnati da un violento colorismo alla Bocklin, utilizzato per alludere a sottili inquietudini e ad oscure allusioni tra tardo romantiche e simboliche. Rivestì un ruolo molto importante nella formazione di alcuni artisti italiani. Nel 1892 fu tra i fondatori della Secessione di Monaco, nel 1895 divenne professore all’Accademia ed ebbe celebri allievi quali Kandinskij e Klee. L’artista fu attratto dal tema del peccato, al quale dedicò molte opere, in un momento storico in cui la scienza cominciava a studiare e classificare le perversioni sessuali, come il sadismo, il masochismo ed il feticismo. Del 1893 è il Peccato (137), conservato in una monumentale cornice d’oro a Monaco nella Bayerische Staatsgemaldesammlungen, raffigurante una donna seminuda, con il seno ben in vista, dall’aria lasciva ed invitante che spunta dall’oscurità. Il suo busto dal candore lunare è avvolto da un grande serpente, che guarda fisso l’osservatore con la bocca aperta ed una smorfia raccapricciante. Potente è il richiamo alla Venere in pelliccia di von Sacher Masoch, mentre il volto misterioso vuole rappresentare il confine tra lecito ed illecito, desideri più o meno confessabili, passioni segrete. Malgrado la peccatrice trasmetta un’impavida bellezza ed un fascino sensuale e decadente, il pensiero va al male, una presenza costante quanto asfissiante nella vita umana. Mentre nel Medioevo il male veniva rappresentato da mostri che popolavano l’inferno, trasferiti da Bosch, col suo folle genio, nella vita quotidiana, a partire dal Novecento, il secolo frastornato dalle rivoluzionarie scoperte di Freud, il male viene raffigurato in molteplici forme dagli artisti, che materializzano sulla tela la proiezione di incubi e sogni, ansie ed angosce. Anche nel Novecento la personificazione del male è spesso una donna, non più la strega medioevale, ma un’Eva dei tempi moderni, una creatura sensuale, dalla natura malvagia e dal corpo da favola, che rende l’uomo cieco ed assolutamente dipendente dalla sua volontà. Come nel dipinto di von Stuck, dotata di una bellezza morbosa e tentatrice, potenziata dalla presenza di un serpente, induttore del peccato per antonomasia. Il dipinto spinge alla meditazione, perchè quella figura arcana addita ad ognuno un cammino solitario, dove prima o poi incontrerà, inevitabilmente, una sorella in carne ed ossa della donna avvolta nel serpente. La giovine, facendosi forte dei suoi splendidi seni, sapientemente crea un equilibrio tra mostrato e celato, tra verità e mistero e l’uomo che la guarda, fissando la punta protrudente dei suoi seni, diventa un incantato voyeur, un accanito osservatore, l’eccitazione di uno degli istinti fondamentali dell’uomo, il sale delle scoperte e della conoscenza. Felix Vallotton, pittore svizzero, fu deciso assertore della resa atmosferica della realtà, caratteristica propria dell’Impressionismo e, legatosi alla corrente Nabis, si rivolse a documentare sulla tela aspetti della vita quotidiana. Si dedicò ad interni e paesaggi, ma amò svisceratamente il corpo femminile, reso con colori tersi e puri, che danno l’impressione della luce squillante e preannunciano il surrealismo. Ripeteva fino alla noia che la pittura doveva tornare a diventare un mestiere difficile. I suoi quadri intrisi di un’austera nostalgia classica erano così diversi dal turbinio cromatico e dal disfacimento formale del post impressionismo, ferocemente attaccati al vero da scavalcarlo. Vallotton adora la forma ed il giuoco della luce che l’accarezza, non ama i grandi coloristi, come Tiziano e rinuncia volentieri al gioco sensuale del colore. E’ ossessionato dal nudo femminile ed indaga i corpi con occhio impietoso e con morboso compiacimento e le sue opere risultano stupende quando il rigore stilistico risulta vittorioso. Il suo più famoso dipinto raffigurante nudi femminili è senza dubbio l’Estate con donne che fanno il bagno in piscina all’aperto (138), realizzato nel 1893 e conservato alla Kunsthaus di Zurigo. Una opera che, presentata agli Independants, provocò un clamoroso scandalo. Un quadro non privo di ironia che prende forza dai corpi nudi, o in procinto di esserlo, di ben venti donne, intente al pettegolezzo ed alle smancerie. Le deliziose signore si presentano candidamente nelle pose più erotiche che si possano immaginare, facendoci grazia, oltre che di seni scultorei di varie fogge e dimensioni, di sederi accoglienti, di ventri piatti ed invitanti origini… della vita. In primo piano risalta una donna, dai tratti vagamente orientali, che sfoggia due seni a pera dai capezzoli acuminati da Guinness dei primati. Una miscellanea per tutti i gusti, piacevole a vedere e rivedere, per sognare ad occhi aperti. Un quadro meno noto dell’artista, Ragazza dalle calze nere (139), in collezione privata svizzera, è viceversa incentrato sulle malizie di un seno acerbo, che non anela che a mettersi in mostra e ad intraprendere la grande ed esaltante danza della vita. La ragazza è intenta a mettersi le sue calze nere e si inchina quel tanto che ci permette, nel gioco malizioso della scollatura, molto ampia e compiacente, di gettare uno sguardo furtivo su quei seni preziosi di giovinetta, su quel fiore nascosto ancora in sboccio, su quel paradiso in terra, sentiero eccitante del desiderio, che può condurci su quella strada sdrucciolevole, anche se dolcissima, che fa precipitare nel baratro di una sensualità senza limiti. Rendersi conto che questi pomi deliziosi non sono mai tanto soavi, né si sporgono tanto in fuori, più che fossero completamente nudi, quando fanno capolino, silenziosi ma eloquenti, da una generosa scollatura. E che sorpresa accorgersi che questa fanciulla, così seria e severa in società, possieda dei seni così allegri e vivaci, così pronti a fare amicizia, ad uscire baldanzosi dal vestito e ad irradiare simpatia. E grande schiocca allora il desiderio di diventare ladri di seni, di avvicinarsi lentamente non visti e di poterli ammirare in piena luce ed accarezzarli con gli occhi e poi andare via con la memoria perenne di una immagine perfetta, sulla quale più volte e con diletto ritorneremo fino agli ultimi istanti della vita. Georges Lacombe, scultore e pittore francese, iniziò la sua attività come impressionista per diventare poi membro del gruppo artistico dei Nabis e da quel momento si interessò principalmente alla scultura. Iside (140), realizzata in legno policromo tra il 1893 ed il ’94 e conservata al museo d’Orsay è una potente rappresentazione della divinità egizia della maternità e della fertilità. La figura della dea era associata anche alla magia ed al mondo ultraterreno e raffigurata mentre allatta il figlio Horus. Iside fu una delle divinità più famose di tutto il bacino mediterraneo; a partire dal periodo tolemaico la sua venerazione, come sposa e come madre, si diffuse nel mondo ellenistico, fino a Roma, da dove, il suo culto, divenuto misterico per i legami con il mondo ultraterreno, dilagò in tutto l’impero. Nella religione romana la dea egizia venne assimilata a molte divinità femminili preesistenti localmente quali Cibele, Demetra e Cerere e molti templi furono edificati in suo onore in Europa, Africa ed Asia. Le sue sacerdotesse vestivano di bianco e dedicavano la loro castità ad Iside, il cui culto cominciò a decadere con l’avvento del Cristianesimo, che sarà dominato da una figura, la Madonna, che presenta molti tratti in comune con la precedente divinità: dalla verginità, all’essere raffigurata con un fantolino in braccio, Gesù bambino al posto di Horus. A partire dagli imperatori Costantino e Teodosio molti templi, precedentemente dedicati ad Iside, vennero riadattati e dedicati alla Madonna, come pure vennero modificati molti dipinti, rafforzando l’accomunarsi delle due figure sotto il profilo iconografico. Nella scultura di Lacombe due fiumi rossi in piena sgorgano dai capezzoli di Iside, dando l’impressione dell’energia vitale primigenia del nutrimento e della vita e generando uno stridente contrasto tra il rosso sangue di questo prezioso liquido che la dea, strizzando vigorosamente le mammelle, fa fuoriuscire ed il marrone dell’ambiente circostante, nel quale si perde la chioma fluente della mamma per eccellenza. Eduard Munch, norvegese, anticipa l’Espressionismo in Germania e nell’Europa del Nord, è pittore esoterico dell’amore, della gelosia, della morte e della tristezza. Nella sua produzione sono rintracciabili molti elementi della cultura nordica contemporanea, dai drammi di Ibsen e Strindberg, all’esistenzialismo di Kierkegaard, fino ai primi saggi di psicanalisi di Freud. Introduce nei suoi sofferti dipinti i grandi temi dell’Espressionismo, dalla crisi dei valori all’angoscia esistenziale, dalla solitudine al timore della morte. Il suo universo simbolico è popolato da immagini fosche e da pensieri angosciosi, solitudine e malinconia, alienazione e diffidenza, incomunicabilità e torbide passioni, un vero inferno sulla terra nel quale l’uomo è costretto a vivere. Nei suoi quadri vi è costantemente inquietitudine ed incubo. La sua arte fu giudicata dal regime nazista degenerata e fu espulsa dai musei tedeschi. I suoi rapporti con le donne furono difficili e viziati da preconcetti, che influenzarono la sua vita e la sua arte. Credeva che ogni donna fosse eternamente alla ricerca di un uomo come innamorato o come marito ed avesse potenti “muscoli da schiaccianoci” tra le cosce, dove intravedeva un severo pericolo, non certamente la porta del paradiso. Nel 1894 Munch realizza Pubertà (141), conservata alla Nasjonalgalleriet di Oslo, una delle sue opere più famose, dove indaga il mistero dell’adolescenza e il turbamento di una bambina seduta sul bordo di un letto, che, diventa donna e si confronta per la prima volta con la scoperta della sessualità e dell’amore. Il suo corpo gracile ed anoressico induce nella giovinetta la vergogna della sua nudità ed ella cerca con le braccia incrociate di nascondere allo sguardo dell’osservatore il pube, rigorosamente glabro, ed offre alla vista soltanto i suoi seni ancora acerbi, che sembrano ansimare nello sboccio. I sentimenti complessi e contrastanti che affollano la mente della ragazzina sono vissuti come un incubo, un misto di ossessione e paura, che ben si manifesta nel volto angosciato e nell’ingombrante ombra nera delle sue spalle, triste presagio di dolore e di morte, più che allegra fantasia sulle gioie dell’ingresso della giovinezza. La scena si svolge nel chiuso della sua cameretta e non trasmette alcun compiacimento sensuale, bensì un intenso sentimento di angoscia. La ragazza è palesemente impaurita del suo futuro e non è orgogliosa del suo corpo, del quale teme le trasformazioni, che sente come un tumulto e con il timore dei dolori che ci attendono nella vita. Dello stesso anno è Madonna (142), intitolato anche, e forse più propriamente Donna innamorata, conservato al Munch museum di Oslo. Un ritratto che fece scalpore alla personale del pittore a Berlino nel 1895 e nel quale il tema della sessualità ispira, non allegria dei sensi e compiacimento dell’invitante nudità, bensì una sensazione di torbido e peccaminoso. L’artista lega peccato e sessualità non per motivi etici, ma perchè profondamente convinto che erotismo e morte siano due facce della stessa medaglia. Non vi è piacere senza dolore ed anche l’illusione della felicità ci porta verso la sofferenza. La Madonna di Munch ha i seni torbidi ed accattivanti, seducenti e palpitanti, che riverberano una luce interiore, inno ed anelito alla voluttà. E’ in realtà una donna immortalata nell’acme dell’orgasmo, con i muscoli dell’addome contratti dal desiderio e gli occhi socchiusi per meglio vedere l’estasi. Nella prima versione del dipinto l’autore, sulla cornice, affiancava immagini di un piccolo embrione simile ad un teschio ed una serie di vermicolanti spermatozoi, per creare una indissolubile similitudine tra la donna fatale e la madre e per congiungere il peccato legato al sesso alla stessa creazione della vita. Il pittore, nel delineare la figura della donna con la testa rivolta a sinistra, lo sguardo sfuggente, il braccio destro portato verso l’alto a ben esporre la grazia di un seno florido, fulcro visivo di uno spettacolare corpo nudo pervaso da un’intima sofferenza, prende certamente ispirazione da Ishtar, l’antica dea assiro babilonese dell’amore e della guerra, che diventerà poi la siriana Astarte ed infine costituirà l’archetipo per Afrodite e Venere. Anders Zorn, pittore e scultore svedese, fu instancabile viaggiatore e grande protagonista della pittura scandinava a cavallo del Novecento. Egli amava dipingere paesaggi e scene di genere ambientati nella sua terra, ma soprattutto nudi femminili delle sue splendide connazionali. In Donne nella sauna (143), conservato nel museo di Mura, sua città natale, Zorn ci offre una zoomata su una abitudine inveterata delle genti del Nord: il bagno gelato dopo essere stati esposti, completamente nudi, a temperature poco meno che infernali, come ben sa chi si è sottoposto qualche volta a questa benefica… attività, vissuta dalle popolazioni nord europee come una religione. Il rituale della sauna prevede che bisogna prima sostare per 15 - 20 minuti a temperature terrificanti, vicine ai 90°, eccitate da un’umidità dell’aria altissima; infatti nel dipinto la donna in secondo piano si accinge a gettare acqua su due pietre roventi per provocare un getto di vapore caldo ed aumentare a profusione la sudorazione, mentre la signora che ci offre la vista del suo opulento sedere, si immerge in una tinozza di acqua a 4°, allo scopo di indurre un’energica vasocostrizione. La mammella in questa danza frenetica delle temperature diventa prima incandescente e sensibilissima, poi, nel gelo, assume il turgore della pietra, con i capezzoli che fuoriescono con vigore, imperiosi come antenne impazzite. L’atmosfera erotica della sauna è del tutto neutrale e di un’innocenza disarmante, solo i nostri occhi latini possono percepire una punta di sensualità in questi stupendi corpi che si crogiolano al calore, oppure paragonare le grida di piacere delle donne che si tuffano nell’acqua freddissima ai frementi gemiti dell’acme dell’orgasmo. George Frederick Watts, pittore e scultore inglese, soggiornò a lungo in Italia e tornato a Londra si affermò con una serie di pitture murali ispirate all’arte italiana del Cinquecento. Negli anni successivi si dedicò soprattutto ad una pittura allegorica di grandi dimensioni, senza trascurare però un’antica passione per il nudo femminile, spesso ambientato negli spazi della mitologia e della leggenda. La Fanciulla senza seno (144), realizzata sul finir dell’Ottocento oggi in collezione privata londinese è però una signorina dell’alta società inglese annoiata e malinconica, anzi melanconica, come andava allora di moda. A partire dal Cinquecento la melanconia per alcuni secoli ha incontrato un grande successo tra le classi agiate: un giovinotto o una pallida fanciulla in preda ad oscuri pensieri esercitavano un fascino irresistibile. Le incisioni del Durer, il pennello di numerosi artisti in pittura e l’immortale penna di Shakespeare in letteratura concorsero ad esaltare la nuova moda. Oggi con le scoperte della neuro chimica si è visto che lo stato emotivo particolare di questi soggetti è legato ad una deplezione di endorfine cerebrali: una volgare depressione e la melanconia è definitivamente tramontata. Alcune volte un seno si rimpicciolisce senza causa apparente, adagiandosi sul petto, vi si sdraia, vi si riversa dolcemente, abbandonandosi a riposare per sempre. Altre volte presenta all’altezza dell’areola delle piccole aperture nascoste, che permettono di sorbirlo completamente fino all’appiattimento più completo, e questo è stato probabilmente il destino delle due mammelle della modella ritratta da Watts, piallata ma non per questo meno seducente. Il suo torace era divenuto troppo liscio e sdrucciolevole, senza nemmeno un accenno di protuberanza, con due fiorellini rosati ad indicarne il posto, come due flaconcini esangui e smaniosi dal desiderio di crescere ed elevarsi. Dopo l’improvvisa scomparsa delle sue preziose gemelline la ragazza non riusciva a darsi pace, si rivolse a fattucchiere e santi taumaturgi, per finire poi sotto il bisturi di un medico praticone, in un periodo in cui la mastoplastica additiva era di là da venire. La maga le consigliò di assumere per un mese una mistura di semi di seno, erano cialde grandi e difficili da inghiottire, che la ragazza ingurgitava con difficoltà, ma speranzosa. Il risultato fu nullo. Cominciò allora a frequentare assiduamente la chiesa della piccola cittadina dove abitava e scelse, per chiedere la grazia, una piccola Madonna col Bambino di una cappelletta laterale, quasi dimenticata. Ogni giorno pregava intensamente, ma invano; decise di invertire i tempi e di offrire un ex voto prima e non dopo la grazia. Dopo aver superato le difficoltà per procurarselo, lo pose furtivamente ai piedi della statua e si inginocchiò. Fu pervasa da una intensa sensazione di caldo e da uno strano formicolio sul torace, che si gonfiò di fantasia e di speranza e cominciò a palpitare. Pregò a lungo per fecondare il nuovo seno e mentalmente ripercorse i suoi peccati. Enorme fu la sua delusione quando, tornata a casa, si accorse che tutto era svanito. Ultima speranza il medico che aveva salvato o illuso tante donne. Grande fu l’imbarazzo quando dovette spogliarsi al suo cospetto e, calandosi la camicetta, si vergognò di non poter esporre che il torace nudo. Il sanitario prese bisturi e martello e senza ombra di anestesia percosse lo sterno scavando una galleria a cielo aperto, una depressione per delimitare due false sporgenze. Il risultato fu modesto, ma da quel giorno gli occhi della fanciulla brillarono di una nuova luce e si sentì bella ed irresistibile. Henrie de Toulouse Lautrec cominciò a disegnare da bambino come distrazione alle lunghe giornate trascorse a letto per le precarie condizioni di salute, aggravate da due rovinose cadute, che gli bloccarono lo sviluppo degli arti inferiori. Trasferitasi la sua famiglia a Parigi, ebbe occasione di conoscere i pittori impressionisti e di approfondire le opere di Degas e Van Gogh, dalle quali rimase letteralmente affascinato. Sentendosi rifiutato a causa delle sue deformità fisiche, frequentava esclusivamente gli ambienti di Montmartre: sale da ballo, teatri e caffè concerto, che diventano gli scenari dei suoi dipinti più famosi, assieme al mondo dello spettacolo con i suoi lustrini raffigurati con colori vivaci. Collabora inoltre come disegnatore a giornali umoristici, per i quali utilizza nuove tecniche di incisione, disegnando vignette e manifesti. Questa sua attività suscita scalpore ed interesse per le notevoli innovazioni stilistiche derivate dal suo interesse per le stampe giapponesi. Nella prima metà degli anni Novanta l’artista si dedica a descrivere nei suoi dipinti la vita che si svolge nelle maison closes, le celebri case di tolleranza parigine, in una delle quali, tra le più lussuose ed esclusive, dal ’93 si trasferisce a vivere, intrecciando una breve relazione con una delle ragazze. Alcune sue opere sono dedicate al lesbismo, come il dipinto Due amiche (145), realizzato nel 1895 e conservato a Zurigo nella collezione Buhrle, nel quale la più audace spoglia con lo sguardo la compagna remissiva, il cui seno floscio e molliccio non è certo da Guiness dei primati. Nelle case di tolleranza il lesbismo veniva condannato, ma tollerato ed era abbastanza diffuso tra le ragazze, le quali, dopo tanti uomini, la sera cercavano una compagnia femminile. A partire dal 1881 alcuni tra i locali più raffinati di Parigi, frequentati da ricchi borghesi, cominciarono a permettere l’ingresso anche a coppie di donne e l’evento fu visto come una ufficializzazione dell’amore saffico. Nella Donna nuda dai capelli rossi accovacciata (146), eseguito nel 1897 e conservato a Parigi nella collezione Pellet, è ritratta la fiamma del pittore in una posizione abituale per le professioniste del sesso. La tavolozza risente dei colori puri delle stampe giapponesi ed è resa preziosa dalle pennellate rapide, che lasciano scorgere in alcuni punti il disegno circostante. Questa, come altre sue tele, suscitavano grande scandalo tra la critica, che viceversa accettava tranquillamente le decine di nudi integrali esposti al Salon con etichette di comodo, che facevano divenire soggetti biblici, mitologici o storici ragazzotte dalle forme opulente, generosamente esposte. La protagonista del dipinto è spiata nella sua intimità e palpabile è la malinconia struggente di questa fanciulla, costretta ad una posa appusata per soddisfare un desiderio particolare di qualche cliente. Il seno scende a piombo, parallelo al corpo, disegnando una linea sinuosa, che sembra voler vincere la legge di gravità. La signorina…, come tante sue coetanee è affetta da una sindrome caratteristica descritta con precisione dal poeta Charles Baudelaire lo spleen, un misto di noia e di angoscia, una consapevolezza triste del vuoto esistenziale, che la vita frenetica di Montmartre tenta inutilmente di esorcizzare. John William Waterhouse, è un pittore inglese, specialista in soggetti classici, storici e letterari, che dopo aver trattato tematiche nello spirito di Alma Tadema, negli ultimi anni della sua attività si avvicinò ai Preraffaeliti, un movimento che promuoveva un rinnovamento nelle arti figurative e nella letteratura inglese del tempo attraverso una rivalutazione del Medio evo e della pittura dei primitivi, in piena sintonia con le tendenze romantiche. La tela Ila irretito dalle ninfe (147), eseguita nel 1896 e conservata a Manchester nella City Art Gallery, raffigura il giovane, dall’eterea bellezza, amante omosessuale di Eracle, il prode guerriero, che viene indotto dalle ninfe a riconsiderare le sue inclinazioni sessuali…, in considerazione della merce pregiata che gli viene offerta in abbondanza. Fu un dipinto molto amato da pittori e poeti di epoca romantica, suggestionati dall’idea di un giovane muscoloso rapito da eteree fanciulle. Ila è un personaggio poco noto della mitologia greca, la cui storia si intreccia con quella di Eracle e degli Argonauti. Eracle, Ercole per i Romani, era un eroe dotato di forza straordinaria, leggendario fondatore delle Olimpiadi ed autore di innumerevoli imprese stupefacenti. Egli si invaghì dei tratti efebici di Ila e lo rapì facendone il suo scudiero ed il compagno di trastulli erotici particolari, che presso i Greci erano normale consuetudine, perchè le pulsioni sessuali erano divise equamente tra le due metà del cielo. Insieme partirono con Giasone alla ricerca del vello d’oro e durante una sosta del lungo viaggio cercarono una fonte per dissetarsi. Ila trovò uno specchio d’acqua frequentato da ninfe giovanissime, quasi ninfette…, che mentre lui beveva lo trascinarono in acqua, facendo strofinare il suo corpo ignaro sui loro candidi seni. L’impatto fu eccitante per l’inesperto scudiero che, al contatto con tanta grazia, fu percorso da un’irresistibile voluttà; non sapendo nuotare si afferrò a quei seni, piccoli ma tenaci e si sbizzarrì in una serie di fantastiche capriole, mantenendosi a galla sopra una piccola profondità, che per lui rappresentava il più spaventoso degli abissi. Eracle lo cercò disperato e pianse per la sua scomparsa, mentre Ila trascorse il resto della sua vita con le ninfe, beato tra tanta luccicante carne fresca e suggendo avido il nutrimento dagli invitanti, virginei seni delle ninfe. Paul Gauguin, dopo aver conosciuto Van Gogh ed aver vissuto ad Arles, si trasferisce a Parigi, dove la sua fama cresce giorno dopo giorno. Ma la potente sirena del mondo primitivo rappresenta per l’artista un richiamo al quale non sa resistere e nel 1891 parte per Tahiti, dove rimane affascinato da una natura incontaminata e da una vita semplice ed autentica. Recepisce i colori ed i profumi del posto e li trasferisce nella sua tavolozza. Dovrà tornare a Parigi, ma vi resisterà soltanto due anni. Nel 1895 è di nuovo a Tahiti che sarà la sua patria fino alla morte. Alcune sue pitture sono intrise di filosofia e simbolismi, che però non riescono a frenare la sua libertà espressiva ed il suo amore per la pennellata calda e sensuale. Le Due Donne tahitiane (148), eseguito nel 1899 e conservato al Metropolitan di New York è un classico esempio del mondo fantastico dell’artista e della sua caratteristica maniera di dipingere con una tavolozza dai colori aspri e vivaci. La fanciulla offre i suoi seni come merce preziosa posta su un vassoio colmo di fiori rossi di mango, pronta a sacrificarli, se necessario, per la gioia dell’amore. Essi sono autentici, senza inganno e dalle curve disegnate magistralmente da un compasso divino, costituiscono da soli un vasto ed allettante panorama e possono scandire la pietra miliare che ci conferma di essere sulla retta via. Per riconoscerli, per ricordarli, per imprimerli per sempre nella nostra mente, bisogna affacciarsi su di essi e trascorrere molti, infiniti giorni in contemplazione, per memorizzare ogni piccola sfumatura, ogni piccolo dettaglio. In questi leggiadri globi di carne dalla punta di una lama, scintillanti in una calda armonia di rosso e di ocra, si incarna il sogno esotico non solo dell’artista, ma di tutti gli uomini. La ragazza è bella quanto il fuoco del sole che brilla nell’oro della sua epidermide, mentre i misteri dell’amore dormono quieti nella notte dei suoi capelli. La sua pelle vellutata risplende in una gamma di colori in cui dominano il marrone rosso o rosato, sottolineato dai luminosi gialli, verdi ed azzurri. Un’evocazione lirica della natura mediterranea della quale Gauguin, invecchiando, si era perdutamente innamorato. Novecento Ferdinand Hodler, pittore svizzero, si formò in un ambiente lontano dai più importanti fatti artistici dell’Ottocento, nel culto per i grandi del passato, come Holbein e Durer, ai quali si sovrappose l’eco dell’impressionismo. Riuscì ad elaborare uno stile assai originale, nel quale il saldo impianto compositivo delle figure e degli spazi, deriva dalla cultura tradizionale, mentre l’uso di colori vivi, corposi, dai contrasti intensi e brillanti dalla coeva pittura francese. Questa originale contaminazione gli permise di realizzare grandi composizioni di carattere narrativo senza mai cadere nell’olografia. Ispirato dalla luce abbagliante dell’alta montagna l’artista fissa espressioni, lineamenti, contorni di figure in ampie composizioni di sapore onirico e mistico, spesso agitate, in preda alle nervose inquietudini di fine secolo, che attraversarono come una scossa elettrica gran parte della pittura europea. La sua opera più celebre è il Giorno (149), realizzato nel 1900 e conservato a Berna al Kunstmuseum, una danza macabra impregnata da simbolismo e rituali e raggelata in un inquietante realismo. Un’immagine piena di vita, di anelito e di prostrazione, di alba e di tramonto, un prodigioso incastro ritmico di forme flessuose. Le cinque donne sincronizzano l’elegante movimento delle braccia, apparentemente afinalistico, in una invocazione vissuta profondamente. I loro corpi sono agili e muscolosi, mentre i seni piccoli ma armonici, sembrano partecipare allo strano rito, danzando in un ideale palcoscenico illuminato da una luce intensa. Sono provocanti e destinati a trionfare, sono mobilissimi ed entusiasti, ingaggiano una silenziosa lotta per la supremazia, tetta contro tetta, vinceranno quelli che sapranno resistere più a lungo in questa danza frenetica, il cui obiettivo è la perpetuazione della gioia di vivere. Giovanni Boldini, ferrarese, ma attivo a Parigi, fu per oltre sessanta anni il fedele interprete, ora beffardo ora indulgente, di una società frivola e raffinata, che nelle sue opere sembra ancora vivere per la freschezza e la straordinaria verosimiglianza dei suoi ritratti e ci appare spensierata, volubile e felice. La bellezza femminile fu per l’artista lo spunto per esprimere la sua ineguagliata capacità di sciolta e briosa penetrazione psicologica, con cui fissa il fascino delle sue dame avvolte in sete fruscianti, simbolo di un mondo vacuo ma scintillante di vita. Boldini produsse una quantità impressionante di effigi indimenticabili, che decretarono il suo successo internazionale quale ritrattista della moderna nevrosi femminile del Novecento, della quale fu sottile indagatore, immortalando come nessun altro artista l’immaginario erotico femminile contemporaneo. Donna nuda dalle calze scure (150), di collezione privata romana, eseguito nel 1905, ci raffigura, sdraiata su un divano, una fanciulla dalle linee sinuose e scattanti e lo sguardo penetrante da consumata maliarda, che sembra compiacersi di essere ammirata in quella posa flessuosa di completa accondiscendenza. Il dipinto è realizzato con un taglio fotografico che lo rende modernissimo e nella ragazza possiamo forse riconoscere la marchesa Casati, immortalata dall’artista in celebri tele ove è elegantemente vestita e qui, giovanissima, in versione nature. Il volto felino e le dita affusolate dalle unghie affilate, pronte a graffiare, fanno trapelare il carattere combattivo della ragazza. I suoi sono i seni della furia: delicati, fragili, appuntiti, pronti a scattare, ma disponibili alla resa e chi saprà vincere la loro irruenza sarà lautamente premiato; potrà lisciare, vellutare, lucidare i seni più blandi, più morbidi, più mansueti e libare con ampie boccate al calumet della pace dei suoi capezzoli rosso rubino. Georges Rouault è considerato tra i maggiori pittori di arte sacra della pittura moderna, anche se non ha disdegnato soggetti profani quali giudici, prostitute e clown. Dopo aver lavorato presso un restauratore di vetrate antiche divenne l’allievo prediletto di Gustave Moreau. Ammirò la pittura di Matisse ed aderì al gruppo dei fauves, dei quali incarnò l’anima più spontanea ed istintiva. Il suo apprendistato presso i pittori di vetrate gli residuò alcune caratteristiche peculiari che egli trasfuse nel suo stile: il segno nero e marcato dei contorni, usato come colore dominante su tutti gli altri, mentre la ricerca di toni contrastati, che diano sfogo alla sua immediatezza espressiva, la prese dai quadri di Van Gogh. Fondamentale fu l’incontro e l’amicizia con il filosofo Jacques Maritain che fu il suo consigliere spirituale per tutta la vita, da questa lunga frequentazione sbocciò il suo fervente spiritualismo espresso nelle forme di un drammatico esistenzialismo, che fece di Rouault uno dei maggiori pittori di arte sacra del Novecento. Alle tematiche morali e sociali dei primi anni di attività si affiancano allora sempre più frequentemente soggetti religiosi, ora drammatici e sofferti, ora rasserenati da un sentimento di pace interiore, senza trascurare i personaggi che vivono ai margini della società, dai quali l’artista si sente attratto e che raffigura con spietata crudezza: prostitute, pierrot, imputati, osservati nel loro percorso tortuoso illuminato sempre dalla speranza della fede e della redenzione. In Ragazza allo specchio (151), eseguito nel 1906 con la tecnica dell’acquerello su cartone ed esposto al Centre Pompidou di Parigi, è rappresentata una donna praticante il più antico mestiere del mondo, attraverso pennellate larghe e contornate con tratti rapidi e marcati, che esprimono con violenta naturalezza l’intensità delle emozioni. Il volto della donna, con le occhiaia ingigantite dal pesante trucco, appare come una caricatura grottesca, mentre le braccia sollevate dietro la testa evidenziano il seno cascante, la cui immagine riflessa nello specchio appare ancora più repellente. L’atmosfera che si respira è quella di un’umanità dolente, che vive con un senso di amarezza e di inquietitudine, di desolato vuoto interiore. Ma non vi è condanna da parte dell’artista, che spera nella redenzione e nella salvezza dei suoi personaggi e lo dimostra nell’accuratezza nella definizione dell’incarnato, un biancore anossico ed allucinato che si pone a metà strada tra livore ed innocenza. I seni sono troppo molli e cadenti, dai capezzoli sfregiati dai morsi e dalle areole dilatate a dismisura e mangiucchiate nell’acme della lussuria. Fluttuanti ed esibizionisti sono il più efficace strumento di lavoro per la prostituta, il biglietto da visita più esplicativo, la cartina al tornasole dello stato anatomico in cui versa la proprietaria della merce. Oggi la mastoplastica fa miracoli, ma nelle meretrici non funziona, lo sballottamento unito allo sbattimento continuo, rendono in breve i seni compatti come la roccia e falsi ed ingannatori come una televendita. Palpandoli il cliente si accorgerà che nel profondo sono duri come l’oro, il nobile metallo che queste donne, dopo averlo guadagnato disonestamente, nascondono nelle più irraggiugibili profondità del loro seno. Henri Matisse per tutta la prima metà del Novecento domina con Picasso la scena artistica mondiale, divenendo il fiero testimone della luce e del colore e l’indiscusso cantore della felicità. Egli inizialmente tende a dare ordine all’esplosione del fauvisme esaltandone al massimo il cromatismo, ottenuto spesso attraverso il sapiente uso di colori complementari. Quindi la tavolozza si scioglie e, liquida e trasparente, dilaga per la tela. La sua cultura artistica era ampia e variegata, spaziando dai primitivi italiani alle stampe giapponesi, dalle icone bizantine all’arte musulmana. Nel 1906 al Salon des Independants riscontra uno straordinario successo una sua monumentale composizione intitolata La Gioia di vivere (152), oggi a Merion presso la Fondazione Barnes, emblema e compendio della sua arte, che unisce in una sintesi straordinaria i temi tradizionalmente opposti della pastorale e del baccanale, esalta contemporaneamente lo slancio dionisiaco e la pace apollinea, il ritmo e la melodia, supera l’alternativa occidentale tra la linea ed il colore. Il quadro fu attaccato violentemente da Signac, che rimproverava a Matisse di aver abbandonato i principi del divisionismo, oramai attratto dall’arte orientale, come dimostra il largo arabesco formato dalle linee e dalle variazioni di colore. Palpabile è anche l’influsso della coeva pittura francese da Manet ad Ingres, da Cézanne a Gauguin. La composizione sprizza una sana gioia di vivere in ogni centimetro di tela, è un tripudio di colori e di corpi nudi in libertà, impegnati attraverso il sesso, praticato nelle posizioni più acrobatiche, al godimento più spasmodico. All’orizzonte alcune fanciulle ballano allegramente in un eccitante girotondo e da questa danza frenetica Matisse prenderà ispirazione per le sue famose tele delle quali parleremo in seguito. I seni dominano la scena ed ogni donna li espone con grazia e civetteria, sicura della tremenda potenzialità dei suoi pomi dorati, resi più attraenti dall’acceso cromatismo. Per l’artista nella sua sfrenata fantasia dovrebbero esistere, anzi esistono, donne dai seni azzurri, dai seni rosa o con i seni verdi, una fervida immaginazione trasferita di colpo nella realtà. Sempre del 1906 è un altro quadro di Matisse, Gitana (153), conservato a Saint Tropez al musée de l’Annunciade. Raffigura, nuda a mezzo busto, una zingara di nome Gypsy ed è una delle opere più intrise della tematica fauve. La tavolozza è violenta e si affida soltanto a colori puri, mentre la forma rifiuta ogni concessione al piacevole. Le pennellate si distendono sulla tela con energica espressività, come per liberarsi da ogni convenzione accademica, l’affermazione del colore porta come conseguenza ad un’equivalente franchezza della forma, ad un’incisiva sicurezza del segno. La composizione è permeata da un’energia vitale ben diversa dalla grazia un po’ manierata che contraddistinguerà la serie di odalische alla quale si dedicherà negli anni Venti, quando il pittore si abbandona per alcuni anni ad una produzione facile ed aggraziata, distendendo compiacente affascinanti figure di odalisca in ambienti lussuosi e raffinati. Una cinquantina di dipinti, che ottennero un grande successo commerciale, caratterizzati da una sensualità solare, serena e vitale e da una tavolozza brillante di straordinaria luminosità, interpretati quasi tutti da una modella italiana Lorette, una bellezza mediterranea di penetrante espressività. Il seno abbaglia l’osservatore con due capezzoli rosso fuoco, due tizzoni ardenti che incutono timore. Raramente le zingare espongono il petto, che noi immaginiamo sporco e puteolente come il culetto di un bimbo che si sia trascinato per terra, ma quando ci è dato vederlo possiamo cogliere la fierezza di donne abituate a nascondere le proprie virtù anatomiche dagli sguardi indiscreti degli estranei. Gypsy era l’unica modella gitana di Parigi, aveva un carattere scostante ed uno sguardo in grado di sollevare pesi con il battere delle palpebre. Il suo seno sfuggente aveva le movenze del più audace dei felini ed attorno all’areola una fitta filiera di peli, di pungente vigore, che si drizzavano solenni in sintonia con l’inturgidimento dei capezzoli. Al 1909 risale la prima versione della Danza (154), oggi al Metropolitan di New York, mentre la seconda, dai colori più squillanti, segue di qualche mese ed è conservata all’Ermitage di San Pietroburgo. La composizione, uno dei capolavori della pittura del Novecento, esprime vita e ritmo, gioia di vivere ed energia, è rigorosamente scandita su tre toni dominanti, l’azzurro del cielo, il rosa dei corpi, il verde della collina; essi incarnano l’essenza universale del movimento e della quiete. La grande novità del dipinto risiede nelle tonalità del colore, molto più marcate, ma principalmente nell’aver accentuato, fino all’enfasi, la spasmodica tensione dei corpi, che sprigiona un’incredibile energia vitale. Matisse intendeva rappresentare una danza ideale di muse di una nuova Età dell’oro, e si ispirò in egual misura alle ballerine del Moulin de la Galette, un locale alla moda di Montmartre ed alla perfetta sintesi tra significato e decoro espressa nei vasi greci a figure rosse o nella pittura dell’antico Egitto. Le fanciulle, completamente nude coi seni al vento, danzano tra blu e verde, tra cielo e terra, acquistando una dimensione primordiale, che allude prepotentemente alla vitalità ed all’istinto. Il colore è quello violento dei fauves, ma ora l’artista allarga le campiture e restringe la gamma cromatica, rendendo le figure monumentali, spoglie e solenni come idoli pagani. I seni delle danzatrici si animano più che mai, in preda ad un’energia primigenia fonte di felicità, si riscaldano, creano un attrito che si risolve nella estrema delicatezza dei gesti. Indicano come una bussola la via maestra da seguire per raggiungere la pace dei sensi, ondeggiano al ritmo di una musica celestiale, provocando tenere emozioni, pulsano di desiderio e si gonfiano orgogliosi, percorsi da fremiti sottili. Si confrontano audacemente in un corpo a corpo affrontato con la sicurezza del successo. A guardarli così soffici e leggeri la vista si annebbia e si smarrisce attonita nella incredibile serie di curve serpiginose che si vengono a creare nel percorrere la rotta soave, mille volte esplorata ed ogni volta ritrovata con più armonia, della danza della vita. Il dipinto rappresenta il culmine della poetica di Matisse, l’incanto del cromatismo ed il potere dell’immaginazione, l’esaltazione dell’amore per la vita attraverso la gioia del colore, al quale si sacrifica anche la forma, una tendenza che sfocerà negli anni Cinquanta nell’astrattismo. Pablo Picasso, pittore, scultore e ceramista spagnolo domina incontrastato, come un gigante, il panorama artistico mondiale del Novecento. Estremamente longevo ed infaticabile ha realizzato quasi 10.000 opere, distribuite tra i musei e le più importanti collezioni private del mondo. Si stabilisce a Parigi nel 1904, attraversa il periodo blu e rosa, dalle tonalità dei colori dominanti e dipinge con nobile trasporto quadri di poveri e di saltimbanchi con una linea castigata ed espressiva. E’ poi affascinato dall’arte primitiva africana, che lo indurrà alla totale scomposizione delle forme e ad un proficuo sodalizio con Braque, fondatore con Pablo del cubismo. La fratricida guerra civile spagnola lo avvicinerà alle problematiche sociali e politiche, alle quali dedicherà il grande dipinto Guernica, la sua opera più celebre, un disperato grido di protesta e di dolore contro l’orrore dei bombardamenti, reso in una icastica, tragica grafia. Dal dopoguerra la sua produzione viene riconosciuta come la voce più alta dell’Arte e Picasso diviene l’alfiere incontrastato di tutte le avanguardie pittoriche, dettando legge, attivo fino alla morte avvenuta nel 1973. Les Demoiselles d’Avignon (155), realizzato nel 1907 e conservato al Metropolitan museum di New York, è il suo capolavoro, svolta decisiva nell’arte occidentale del ventesimo secolo e spartiacque tra antico e moderno, in grado di turbare lo spettatore ieri come oggi. Inizialmente il dipinto doveva raffigurare l’ingresso di un marinaio in un bordello con in mano un teschio, una sorta di memento mori sul rischio del contagio venereo, poi Picasso escluse le figure maschili e diede violenza alle tinte, stravolse la prospettiva e diede luogo alla scomposizione delle forme, dando così inizio ad una nuova visione della realtà e trasformando la tela in un vero e proprio incunabolo del cubismo. I seni delle Demoiselles d’Avignon sono i primi seni cubisti della storia dell’arte, dalle forme eccentriche e sfuggenti, impalpabili ed evanescenti, ma sempre pregni di un fascino ed un’attrattiva irresistibile. Le fanciulle li espongono con grazia, sollevando le braccia ed anche la figura sulla destra, uno spaventoso ghigno di una raccapricciante e terrifica maschera africana, invoca attenzione sul suo pettorale concavo e convesso in egual misura. Abitano uno spazio scandito vigorosamente che si espande oltre le singole figure e produce nell’incauto osservatore gli abissi di una libidinosa vertigine. Già da qualche mese Picasso, oltre a frequenti visite al Trocadero, ove si affastellavano feticci, maschere rituali ed apparati funerei in panoplie imponenti, cercava sul mercato fotografie e cartoline di popolazioni primitive, lontane nello spazio e nel tempo, per poter dar sfogo liberamente alla sua vocazione caricaturale. L’occasione gli fu fornita da una serie di scatti di donne d’etnia Malikè e Bobo, eseguite da un celebre fotografo di stanza a Dakar. Egli realizzò allora Due nudi (fig. 156), conservato al Museum of modern Art di New York, nel quale, contrapposte frontalmente, due indigene sembrano voler gareggiare sul primato di bellezza dei propri seni: compatti ed a punta di freccia quelli della donna a sinistra, spaziosi ed invitanti quelli a destra, mentre i capezzoli, come ideali respingenti, sembrano pronti a partecipare alla bellicosa competizione. L’artista nell’affrontare la composizione disaggrega l’immagine e la ricompone, interpretando cromaticamente il bianco e nero della fotografia. In seguito Picasso lascerà del tutto il figurativo e produrrà personaggi completamente disarticolati, come nel Figure sulla spiaggia (fig.157), realizzato nel 1937 e conservato a Venezia nella collezione di Puggy Guggenheim. Egli riprende il motivo di costruire protagonisti come elementi plastici alla stregua di una scultura, una tematica già elaborata tra il 1929 ed il ’30. La narrazione procede ora con una punta di magica ironia e con una strutturazione plastica elementare quanto essenziale, oltre ad una spoglia dinamicità. I seni in mostra sono di varie forme e danno la palpabile sensazione della consistenza materica. Sono a pera, a mela, ma anche a melone. Sono indifferenti alla realtà che li circonda come allo sguardo meravigliato del lontano osservatore. Sono un archetipo deformato e folle della femminile bellezza e conservano intatto il fascino e la prepotente seduzione del più eccitante attributo del sesso debole... Aristide Maillol, scultore francese, dopo aver lavorato come specialista nella creazione di arazzi, si dedicò completamente alla scultura, realizzando principalmente nudi femminili che ricordano le composizioni antiche nell’equilibrio e nel vigore plastico delle masse. Allievo di Gérome e Cabanel, si avvicina al gruppo dei Nabis e conosce Picasso. Nel 1900, in occasione dell’Esposizione universale di Parigi, viene colpito dalla plastica egizia ed indiana, oltre a quella di stampo classico, per cui si dedicherà alla creazione di volumi massicci, ma distesi, centralizzati su prosperose figure femminili. Il Desiderio (158), realizzato nel 1907 e conservato al museo d’Orsay di Parigi, è un bassorilievo di piombo, che fissa l’acme del desiderio sessuale, con un giovane, stregato dal seno turgido di una fanciulla, che si appresta a santificarlo degnamente con baci e carezze. La carica erotica della composizione è incentrata sull’attrazione fatale esercitata dal petto rigoglioso della ragazza, che, per quanto volga altrove lo sguardo, volentieri pregusta le gioie dell’amore imminente. I corpi teneramente intrecciati possiedono una carica dinamica dirompente che genera una palpabile sensualità ed un prepotente desiderio. Gustav Klimt, pittore austriaco, è il protagonista della Secessione austriaca, movimento che si proponeva la creazione di uno stile avulso dall’accademismo. Fondata a Vienna nel 1897, costituì un vasto movimento culturale che coinvolse architetti e pittori. La città era in quegli anni una delle capitali del mondo, dove vivevano musicisti come Mahler e Schonberg, scrittori del livello di Musil ed intellettuali della tempra di Freud e Wittegenstein. Nell’aria si respirava la fine di un mondo, l’Impero Austro-Ungarico, che aveva dominato a lungo e la coscienza di questa futura ed imminente apocalisse era il carattere distintivo della cultura decadentista di fine secolo. Gli esordi di Klimt sono segnati da una precisione di disegno ed esecuzione sbalorditiva, derivata da una rivisitazione della grande tradizione rinascimentale. Agli albori del nuovo secolo la svolta, con l’accentuazione del linearismo e della bidimensionalità, ravvivati da campiture vivacemente decorate. Il suo stile inconfondibile è pieno di sottintesi cerebrali ed estetizzanti, e prende ispirazione dalla cultura bizantina e dalle novità giapponesi. Nacque così una pittura impregnata da una calda sensualità e da un cromatismo acceso, ingabbiato in precisi limiti geometrici. Dopo un periodo di grande successo vi è stata una fase in cui la critica ha valutato negativamente le sue opere, tacciandole di volgare decadentismo erotico. Oggi gli studiosi hanno recepito pienamente il rivoluzionario messaggio dell’artista, che nella estenuante ricerca di ritmi decorativi e di colori smaglianti ha precorso la formazione delle correnti astrattiste. Il suo periodo aureo durato circa dieci anni si conclude con la realizzazione della Giuditta II (159). Klimt aveva già realizzato una Giuditta, raffigurata come femmina fatale, somigliante più ad una diva del nascente cinema o ad una prima donna del teatro internazionale, che ad un’eroina biblica. Qualche anno più tardi, nel 1909, ritorna sul tema della maliarda, elegantemente vestita con un abito multicolore, che contrasta con il torace generosamente nudo, esposto con orgoglio e disprezzo, mentre la testa mozzata di un uomo che tende a confondersi con il gioco di arabeschi e cromatismi frenetici della lunga veste, genera l’ambiguità sull’identità della protagonista: Giuditta oppure Salomè? Il dipinto presentato a Venezia nel 1909 fu subito acquistato dalla locale Galleria di Arte Moderna, dove tutt’ora si trova. Imbevuta di colori preziosi e di fantastici ghirigori la tela respira una decadente raffinatezza e le ansie esistenziali dell’epoca, mentre la costruzione fantastica dell’immagine prelude alla nascita dell’astrattismo. L’opera, dall’originale formato, giocato su una profonda verticalizzazione dell’immagine, è ricca di elementi tipici del repertorio dell’artista, come la raffinatezza squisita ed estenuata degli intrecci lineari, i turbamenti, le ansie di amore e di morte, care alla letteratura coeva e la fastosità della rappresentazione, di palpabile inquietudine, esaltata da riverberi di luce e da motivi decorativi reiterati fino all’ossessione. Il seno smagrito della donna è partecipe dei suoi foschi pensieri, che si agitano in preda ad una frenesia truculenta, mentre la carne è percorsa da una passione violenta, che contrasta con la macchinosità della composizione, vagamente orientaleggiante. Dai capezzoli sprizza odio e rancore, una miscela esplosiva che, se ingurgitata, provoca acuto malessere ed una lussuria folle, che si placa solo con il ripetuto possesso della donna. Herbert James Draper è un poco noto pittore inglese, attivo all’inizio del Novecento e specialista nel ritrarre scene mitologiche. La sua opera più nota è Ulisse ed il canto delle sirene (160), eseguito nel 1909 e conservato ad Hull nella Ferens Art Gallery. Le sirene erano figure della mitologia greca che stregavanpo i marinai con il loro canto, facendoli naufragare sugli scogli o nei gorghi, per poi cibarsene. La loro sede abituale era lo stretto di Messina ed il golfo di Napoli. All’inizio erano rappresentate come donne uccello, dotate di mammelle floride e prominenti, ali piumate, viso femmineo, che talvolta amava anche ornarsi di barba ed artigli di rapace. Somigliavano alle arpie ed erano fameliche e raccapriccianti, provocavano ribrezzo ed orrore. La fantasia popolare le trasformò nel tempo completamente e quelle che Omero fa incontrare ad Ulisse sulla sua rotta sono per metà donne e per metà pesci. Il corpo è di una bellezza straordinaria ed il loro canto ammaliante ed irresistibile. La loro voce dolcissima era capace di istillare un tale languore, un piacere così sconvolgente ed assoluto, da appagare ogni fame ed ogni sete. Ulisse senza cadere in loro possesso ne vuole sentire il canto melodioso, per cui, dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi compagni, si fa legare con lacci strettissimi all’albero maestro e si appresta all’eccitante incontro. A lui soltanto, mai pago di sapere, spetterà l’incontro col sovrannaturale: le sirene lo tenteranno con la promessa di saziare la sua sete di conoscenza, gli diranno soavemente che saprà discernere il bene dal male ed il perchè di tutto ciò che accade sulla terra, ma inutilmente. Sono femmine fuori del normale, vergini ma sessuate ed il pennello di Draper aggiunge alla forza di persuasione del loro canto, la potenza devastante di seni pertubatori e perennemente bagnati, con un rivoletto che, dopo aver percorso con inesausta lentezza l’epidermide, sgocciola sensualmente dai capezzoli. L’acqua produce un vivace luccichìo dai mille riflessi, che esaltano le loro linee sinuose ed appetibili. Hanno la durezza della pietra e la smagliante nitidezza di un biancore inimmagginabile. Spesso le grandi piovre tentano di attaccarsi ai seni delle sirene e li premono con dolce furore per suggerne il nettare, ma senza risultato, mentre questa inebriante ambrosia viene offerta al temerario Ulisse e le più audaci sfiorano i bordi della nave per offrire il dolce pasto. Sono seni duri e soffici, densi e compatti, sono semplicemente irresistibili e qualsiasi uomo che per ventura dovesse toccarli, rimarebbe sottomesso per sempre al loro volere. Tra lo sparuto gruppetto di pittrici che hanno trovato posto in questo libro dedicato al seno un posto particolare occupa Gwen John, gallese, che divise col fratello Augustus la gloria artistica familiare. Nel Cinquecento e nel Seicento il numero delle pittrici nel panorama artistico mondiale era estremamente esiguo, in sintonia con la regola che la penna a volte poteva essere femmina, ma il pennello doveva essere rigorosamente maschio. Se ci spostiamo al contemporaneo ci accorgiamo, viceversa, che il numero delle artiste eguaglia quello dei colleghi del sesso forte…, ma solo pochissime hanno raffigurato il seno e tra queste la maggior parte dichiaratamente lesbiche o bisex. Anche la nostra Gwen, come Tamara de Lempika, pare non sfugga a questa regola. Infatti nonostante sia stata prima la musa e poi l’amante di Rodin, non disdegnò di intessere un’amicizia particolare con una sua modella, Fanella Lovell, protagonista del dipinto Ragazza nuda di cui ci interesseremo. La John, trasferitasi a Parigi, cominciò i suoi studi artistici sotto la guida di Whistler, prima di entrare nell’orbita di Rodin. Esponeva i suoi lavori nelle principali capitali europee e la sua specialità, oltre alle nature morte, furono i ritratti generalmente di donne, di solito sedute e con le mani sul grembo. La sua pittura si basava su toni e colori molto delicati, in contrasto con la tavolozza più vivace del fratello, più famoso di lei, anche se molti critici ritenevano che la sorella avesse maggiore talento. Ragazza nuda (161), realizzato tra il 1909 ed il ’10 e conservato alla Tate Gallery di Londra, fa pendant con un altro dipinto, anche esso di piccole dimensioni e conservato al museo di Arte moderna di New York, nel quale la stessa modella è ritratta vestita, uno spunto chiaramente derivato dalle celeberrime Maje del Goya. Su più di un testo abbiamo trovato il quadro segnalato tra gli esempi più preclari di Impressionismo inglese, imprecisione grave, perché l’opera è chiaramente espressionista. La giovane è raffigurata con una esasperata attenzione al dato della realtà fisica, in una posa rigida e bloccata e con lo sguardo smarrito che fissa il vuoto. Il suo corpo, esile e filiforme, sembra un canto disperato all’anoressia ed il seno, flaccido e smunto, è completamente privo di grazia e di grasso, per cui le areole ed il capezzolo rientrano all’indentro, mancando l’abituale sostegno. Sembra il seno cadente di una vecchia di ottanta e più anni, viceversa la ragazza ne ha poco più di venti. In una lettera confidenziale alla sua amica Ursula Tyrwhitt la pittrice confessa che, nell’eseguire le due tele, aveva temporeggiato per due anni, per non doversi separare, finito il lavoro, dalla modella, che, a suo parere aveva una carnagione limpida come acqua di roccia… Henri Rousseau è più conosciuto come il Doganiere, soprannome che gli venne assegnato da un giornalista per il suo lavoro al dazio di Parigi. Frequentò lo studio di un modesto pittore accademico, tale Felix Clement, ma può essere considerato un autodidatta. Espose per anni al Salon des Independants e cercò di andare al più presto in pensione per dedicarsi alla pittura. Non ebbe alcun successo in vita e fu a lungo oppresso dai debiti. I critici erano concordi nell’attribuirgli scarse capacità tecniche e l’incongruenza nei dettagli della folta vegetazione che animava le sue tele, frutto della sua sfrenata fantasia o nel migliore dei casi esito di una visita al giardino zoologico o all’orto botanico parigino. Solamente dopo la morte fu riconosciuto il suo genio innovativo e divenne un punto di riferimento importante per i contemporanei: i simbolisti riconobbero nella sua produzione la rappresentazione del valore quasi religioso della pittura in relazione alla musica, Picasso e Gaugain rimasero affascinati dal suo ritorno alle origini, mentre i surrealisti apprezzarono i processi di liberazione dell’inconscio. Il Sogno (162), realizzato nel 1910 e conservato al Metropolitan di New York, è l’ultimo dei suoi grandi dipinti aventi per soggetto la giungla ed in esso il Rousseau riversa un sentimento spontaneo di struggimento verso il mondo naturale. Il quadro presenta una giovane donna nuda, che sembra dominare con le sue splendide curve l’ambiente circostante. I suoi seni, perfettamente eguali, sono i seni di tutte le donne partorite dall’inconscio dell’artista, due coppe rigogliose di gioia di vivere, grondanti felicità e salute. La lettura psicoanalitica dell’opera ha indotto alcuni studiosi ad identificare nella figura della donna la volontà dell’artista di rappresentare la propria parte femminile nella duplice essenza ferina ed angelica, noi, viceversa, siamo più propensi a vedere nello splendido corpo della fanciulla al cospetto del leone, re della foresta, la vittoria della bellezza sulle altre forze della natura. La donna addormentata sul canapè sogna di essere trasportata nella foresta, al suono ammaliante dello strumento dell’incantatore. La signora, mollemente adagiata risalta col suo incarnato sul fogliame fitto ingentilito da grossi fiori ed agili rampicanti; una posa da salotto borghese trasferita in una foresta primordiale, un sogno, naturalmente, nel quale tutto è possibile ed impossibile allo stesso tempo, un universo onirico reso credibile attraverso l’uso di forme e colori primari. Il risultato è una scena nella quale tutto è semplice e immediato, ma nello stesso tempo misterioso ed ambiguo, intorno una fauna esotica, rischiarata dai raggi di una luna piena che fa capolino sulle fantasie e le ansie dei nostri tempi agitati. Come in tutte le sue opere l’artista, partendo dalla pura osservazione del suo mondo interiore, trasferisce i suoi pensieri inconsci in scene trasognate e banali che, nella loro raffigurazione monumentale della natura sono espressione di un’ingenua sensibilità. E fu proprio questa pittura ruspante, naive, ad influenzare i surrealisti. A differenza dei suoi numerosi epigoni, Rousseau non caricò di complicati simbolismi la sua pittura, che era viva espressione della sua fantasia e del suo sentimento e questa ammaliante donna nuda dai seni seducenti, posta in un luogo dominio incontrastato dell’istinto, cosa altro non è che il sogno segreto di tutti gli uomini. Ernst Ludwig Kirchner, pittore tedesco attivo nei primi tumultuosi decenni del Novecento, studiò a lungo la produzione di Rembrandt e di Cranach e fu influenzato anche dall’arte giapponese e negra. Si distinse tra gli espressionisti per la plastica essenzialità delle sue immagini e rappresentò la tragedia della solitudine umana entro il drammatico dinamismo del mondo contemporaneo. Fu attirato dalle scene di strada, dagli spettacoli di cabaret e del circo, ma la sua passione fu il nudo femminile, spesso la solitudine squallida delle cortigiane. Come molti artisti contemporanei tedeschi fu toccato dalla tragedia del nazismo, che ordinò la distruzione di gran parte della sua produzione. Busto di donna nudo (163), realizzato nel 1911 e conservato a Colonia nel Wallraf Richartz museum, è paradigmatico dello sguardo indagatore dell’artista nei riguardi dell’universo femminile, che rappresentò, non solo per lui, ma anche per i suoi colleghi del gruppo denominato il Ponte, la polarità fondamentale di quel rapporto che simboleggia la legge dell’Eros, motore dell’intera dinamica cosmica. Ed al centro del dipinto, fulcro dell’immagine, il seno prosperoso della signora, dai capezzoli rosso fuoco, che accendono la fantasia dell’osservatore. Il viso è nascosto da un cappello a falda larga, che incoraggia l’audacia e l’esibizionismo, mentre i colori vivacissimi e posti sulla tela con una stesura piatta analoga a quella dei fauves francesi, riscaldano l’atmosfera e rinfocolano la polemica che Kirchner intese intraprendere nel campo sociale e morale con la società del suo tempo. Sono seni generosamente offerti al godimento degli occhi ed alla fantasia del tatto, esemplari e stupendi, duri, tesi, argillosi, ma nello stesso tempo docili e disponibili. Un lampo di luce di un candore insuperabile, che affascina e non si può più dimenticare, una rapsodia dolcissima nella cui armonia è dilettevole perdersi. Virgilio Costantini è pittore poco noto, ma di abilità prodigiosa in grado di sfidare la resa fotografica, come dimostra in questo dipinto, Prima notte (164), di collezione privata inglese, eseguito nel 1912, nel quale una sposa si sfila l’abito da cerimonia e si prepara a consumare il matrimonio. L’artista, grande esperto nella tecnica dell’acquerello, riesce a rendere l’incarnato delicato come la seta, con riflessi tra il dorato e la madreperla. Il seno, un tuffo immortale di desiderio, ben sodo e dalle invitanti areole di un rosa evanescente, focalizza l’attenzione dell’osservatore, mentre le parti intime sono ancora velate dal vestito che, lentamente, in un affascinante deshabillé la fanciulla sta facendo scivolare, tra l’evidente imbarazzo e la malcelata audacia, resa più attraente dall’intrigante sfondo murale color malva, picchiettato di eloquenti macchie d’un rosso premonitore dell’imminente deflorazione. Amedeo Modigliani incarna nell’immaginario popolare il mito dell’artista maledetto, dalla vita sregolata, dedito all’alcool, alle donne ed alla droga e questa fama è stata dilatata da libri e film di grande successo. Inizia la sua attività in Toscana, sotto l’influenza dei Macchiaioli, ma trasferitosi a Parigi rimane colpito dai dipinti di Matisse e dalle esperienze dei Fauve. Il suo stile, originale ed affascinante, è una feconda sintesi di elementi culturali diversi, dai ritratti del Rinascimento toscano alla statuaria delle Cicladi ed alle maschere africane. L’artista dipinse numerose donne dal volto minuto, il collo abnormemente lungo e gli occhi a mandorla, che hanno reso la sua pittura inconfondibile. Le prime teste risalgono al 1910 e sono caratterizzatte da un ovale molto allungato e da una forma tondeggiante; somigliano in maniera sorprendente a fusti di colonne o cariatidi, rinvangando stili del passato, dal gotico italiano all’arte greca. L’approccio al personaggio è rigorosamente frontale ed il volto è visto come un’astrazione botticelliana, bizantina o africana. Lo sguardo è perso nel vuoto, a rimarcare il triste destino dell’uomo, costretto alla solitudine e ad una malinconia senza scampo. Il Nudo disteso (165), realizzato nel 1917 e conservato al Metropolitan di New York, è una delle opere più importanti di Modigliani ed uno dei suoi nudi più famosi. I primi nudi risalgono al 1908, ma soltanto dopo il ’16, quando entrò nell’entourage del mercante Zborowski, divennero una sua specialità, molto richiesta dal pubblico per le pose ardite e per il modo di rappresentazione originale dell’anatomia femminile. La sua personale del 1917 suscitò grande scandalo per la presenza di tanti corpi di donne con lo sguardo insolente che fissavano l’osservatore ed il commissariato di polizia dovette intervenire, minacciando di sequestrare i dipinti più spinti, tra i quali vi era anche quello di cui stiamo parlando, nel quale la modella, distesa su un letto coperto da una stoffa rossa, allunga il braccio sinistro sopra la testa per meglio esporre la meraviglia di un seno debordante di straripante monumentalità, che contrasta con un addome piatto mollemente allungato. Le sottili variazioni cromatiche, ricche di una luce intensa e calda, mettono in risalto la calma serafica della fanciulla con gli occhi chiusi, che sembra dormire tranquilla, conscia dell’eccitazione provocata nello spettatore dalle sue splendide forme. Modigliani adoperava numerose modelle, a volte anche prostitute o ragazze di facili costumi, che si offrivano, per pochi spiccioli, a posare di giorno e quasi sempre a concludere la prestazione con una notte di follie. La modella del dipinto possiede un seno fuori del comune, raro a riscontrarsi in altri lavori dell’artista ed una carica di sensualità spontanea ed estremamente coivolgente, ostenta le sue forme opulente in una posa quanto mai esplicita, carica di un erotismo dirompente ed istintivo. Tutta la composizione sembra fremere di una calda sensualità, che emana potente dai due globi carnosi solidi ed imperiosi, i quali stregano ed attirano con una morbidezza peccaminosa ed irresistibile. Un pizzico di pruriginoso erotismo è fornito anche dai cespugli naturali, dal cavo ascellare, pregno di afrori e ferormoni invitanti, al monte di Venere, che richiama a viva voce gli intrighi di una inesplorata foresta tropicale. Oscar Kokoschka, protagonista di una lunga vicenda d’amore per gli uomini e per la vita, con la sua produzione costituirà il germe della nuova ondata neo espressionistica e tutti gli artisti della transavanguardia percepiranno la sua ombra inquietante. I suoi ritratti dai colori funerei esprimono malessere e sofferenza interiore e nel primo decennio del Novecento imprimono un nuovo corso all’arte viennese, dominata fino ad allora dalla lezione di Klimt. La Donna in azzuro (166), eseguita nel 1919 e conservata a Stoccarda nella Staatsgalerie, fu dipinta avendo a modello una bambola a grandezza naturale, costruita su precise indicazioni dell’autore in modo che somigliasse il più possibile ad una donna. Kokoschka fu ossessionato a lungo da questa opera, per la quale approntò molteplici disegni preparatori. La mano che sorregge la testa della fanciulla tradisce col suo giallo ceruleo la materia di cui è costituita, ma l’attenzione dell’osservatore è attirata dai seni, che hanno la compattezza, la plasticità e lo scintillio delle cose morbide e trasmettono anche la loro insensibilità allo scorrere del tempo, che ne moltiplica il fascino misterioso. Sono seni che invitano alla contemplazione, perchè non possiamo precipitarci su di essi ad accarezzarli, nemmeno con la fantasia e se lo facciamo ne traiamo una sensazione ineffabile, percependone la forma mirabilmente rotonda e la consistenza della materia, che non teme la morte e non cede alle dolci sollecitazioni, come avviene per quelli di carne e sangue. Sfideranno vittoriosi l’eternità, anche se sono così freddi ed insensibili. Pierre Bonnard fu tra gli animatori del gruppo dei Nabis fondato nel 1888. Essi, Ispirati a Gauguin, utilizzavano a-plats di colore, contorni spessi e furono influenzati dall’arte giapponese. Reagirono all’Impressionismo con una pittura più meditata e nello stesso tempo più netta nel colore, disposto a campi chiaramente delimitati sulla tela. Ricercavano un’arte libera dalle convenzioni, che privilegiasse l’eleganza decorativa, furono attratti dal misticismo (nabi in ebraico significa profeta), giungendo a composizioni pervase da un’atmosfera di raccoglimento ed irrealtà, per cui furono definiti anche intimisti e può esistere dipinto più intimista del Nudo nella tinozza (167), realizzato nel 1924 e conservato in collezione privata a Parigi? La tela trasmette l’impressione di un’istantanea rubata, scattata di sorpresa in un momento casuale. Molti sono i nudi femminili ritratti da Bonnard nell’intimità della toeletta o nell’umido della vasca da bagno. Una specialità molto richiesta dalla committenza, che voleva adornare i salotti delle proprie residenze con quadri gradevoli, che potessero aiutare la fantasia e stimolare i sensi sopiti. Le sue modelle preferite furono la moglie Marthae, tra l’altro bruttissima, da cui la necessità di sfocare le immagini del volto e Dianae Vierny, dalle forme sinuose e conturbanti, moglie dello scultore Aristide Maillol, del quale abbiamo anche illustrato un’opera. Egli spesso le sottoponeva ad interminabili sequenze fotografiche e non le metteva mai in posa, perchè cercava di cogliere la dinamicità del movimento, la contrazione dei muscoli, l’instabilità dell’equilibrio, attraverso uno studio geometrico ed un’accurata precisione anatomica. Nella tela in esame calde tonalità cromatiche, rese in sottili gradazioni, ed una leggera stesura del colore si armonizzano con l’incarnato roseo della tenera fanciulla in equilibrio precario per poter lavare accuratamente i piedi. Il seno, nell’insolita posizione, acquista una forma originale, dando l’impressione di due autorevoli respingenti con i capezzoli che tendono ad allungarsi. Lavarli diventa allora una pratica ai limiti del rito: bagnarli dall’alto verso il basso, prima energicamente con acqua calda per far affluire il sangue e poi delicatamente per diffonderlo, infine spugnature di acqua gelata, in maniera tale che il tessuto rimanga trofico. Una volta lavati e strizzati per benino si applicano le creme, numerose dall’epoca delle segrete ricette delle streghe. Sono consigliate per tonificarlo, lucidarlo, profumarlo. Ogni donna ha i suoi segreti che conserva gelosamente, ma pare che tutti gli unguenti siano ricchi di alcool, del quale le proprietà inebrianti sono da secoli unanimemente riconosciute. Si cerca di farli divenire più bianchi, più diafani, più lucidi, più appetibili, più profumati, più seducenti, più tutto, per il piacere narcisistico delle donne e per il diletto degli uomini.acquista una dimensione universale, così come proposto negli stessi anni dalle massicce figure di Picasso. La donna dallo sguardo cupo e malinconico, inquadrata su uno sfondo architettonico, ha un seno che ben esprime il suo stato d’animo: pendulo e svuotato di ogni sostanza vitale, afflosciato oltre misura e moscio che più moscio non si può. L’artista mostra, anche se parzialmente, la nudità della fanciulla perché ritiene di enfatizzare la forza fisica che cerca disperatamente, attraverso il ritorno alla natura, di contrastare le suadenti chimere della modernità; ma la sfida è impari ed il pessimismo di Sironi ci raffigura gli effetti devastanti della solitudine su un essere, sociale per eccellenza, come l’uomo. Tamara Gorska, in arte de Lempicka, dal cognome del primo marito, pittrice polacca, fu una donna famosa per la sua vita mondana, oltre che per la sua abilità di pittrice. Fu conosciuta per la sua eccentricità portata agli estremi e per il mirabile connubio di bellezza e perversione. Durante la rivoluzione d’ottobre si trasferì col marito a Parigi dove visse una vita ribelle e dispendiosa, tra lussi e legami affettivi disinibiti sia maschili che femminili. Si dedicò alla pittura sotto la guida di Maurice Denis ed amò l’uso di colori brillanti e caldi dopo aver praticato il disegno con un tocco raffinato ed elegante. Da Andrè Lothe, un originale cubista, derivò il gusto per la scomposizione dei volumi. Ritrasse personaggi dell’alta società in ambienti lussuosi e tra questi lei stessa in un celebre autoritratto, che fece da copertina alla più diffusa rivista tedesca, mentre è al volante di un’automobile da sogno, una Bugatti verde, bella, fascinosa, ricca ed annoiata, dallo sguardo assente ed impenetrabile. Nel 1927 fu invitata al Vittoriale da D’Annunzio, il quale, celeberrimo conquistatore di donne fatali, con la scusa di chiederle un ritratto, mise il moto tutto il suo fascino, ma, a quel che raccontano le cronache, senza successo. Nel 1934 si risposò, divenendo baronessa, e continuò la sua vita mondana nell’alta società, ammirata per il suo fascino e per la sua bellezza sfolgorante. Si trasferì poi in America e cambiò il suo stile, eseguendo quadri astratti ed utilizzando una tecnica a colpi di spatola, senza però incontrare consenso nella critica. Morì più che ottantenne e per sua volontà le sue ceneri vennero disperse dalla figlia Kizette sulla vetta del vulcano Popocatepetl, disperdendo al vento in mille luoghi la sua inesausta vitalità, che per anni aveva dimorato nel suo splendido corpo. Nel dipinto Ritmo (170), eseguito nel 1925 ed esposto subito a Milano e l’anno successivo a Parigi al Salon des Independants, appaiono tutti gli elementi che caratterizzano lo stile di Tamara, dall’influsso di Lhote a quello fondamentale di Ingres, oltre alla conoscenza dei manieristi italiani, in primis il Pontormo e di alcuni pittori coevi, tra cui Casorati, autore del Concerto (171), conservato presso la sede Rai di Torino, un quadro da cui deriva tangibilmente quello della Lempicka. Le donne che affollano il dipinto, nelle loro smaglianti nudità, fremono di una vitalità inebriante, da protagoniste di un anticonformismo femminile che osa esprimersi in maniera sfacciata, con pose ardite ed inconsapevoli del volume e del peso dei propri corpi. Sono donne che vogliono esprimere in tutti i sensi la loro eccentrica sensualità, sfiorando, con la vistosa muscolatura, quella sottile ambigiutà che le rende ancora più affascinanti e misteriose. Sono donne che osano spogliarsi completamente, senza pudore e senza compromessi, né inutili moralismi, fiere dei loro enormi corpi modellati che assurgono a prototipo di una moderna femminilità. I seni sono spavaldi e rappresentano le frecce della loro stupenda giovinezza, che le rende simili alle irragiungibili stelle di Hollywood. Essi intonano un soave concerto ed ogni seno presenta una particolare vibrazione musicale che fuoriesce dal capezzolo, alcuni producono un suono delizioso e frivolo, altri danno luogo ad inflessioni acute e dissonanti, i più ampi le note alte, i più piccoli le note basse. Cercano disperatamente un abile direttore d’orchestra che, titillandoli dolcemente, ne sappia trarre una straziante melodia della carne, in un fantastico proscenio attraversato da sapienti sfumature di luci ed ombre. Nel 1941 Tamara esegue Donna nel palco (172), oggi in collezione privata a Berlino, una tela nella quale la perfezione tecnica si coniuga felicemente alla luminosità cromatica. I seni della giovane ed elegante signora sono celati quel tanto che basta ad eccitare il desiderio di scoperta degli uomini, i più grandi estimatori di un prodotto che non conosce crisi né saturazioni. Una prima all’Opera è un’occasione preziosa per signore e signorine, per mostrare sul mercato il più appetibile degli attributi femminili. Che profusione, che quantità, che ostentazione; tagli birichini e scollature abissali, sembra una gara per esibire allegramente il frutto proibito, pronto ad essere addentato e gustato. I seni che svettano orgogliosi nei palchi sono alteri e pomposi e quando sono molto affascinanti producono una strana vertigine negli uomini e qualcuno tra i più sensibili ed incauti è addirittura precipitato in platea, fracassandosi la testa. Giovani ed attempate li espongono con disinvoltura, producendo maldicenze e pettegolezzi infiniti: “La marchesa Tizio veniva incontro a tutti con una scollatura profonda, che evidenziava in maniera spettacolare le sue tette; la contessina Sempronio non era attenta allo spettacolo ed era unicamente impegnata ad offrirli a destra ed a sinistra; la manager Pinco li ostentava con più impudicizia della più lasciva delle meretrici ed infine la baronessa Pallino li esibiva sul vassoio del suo corsè e trascinava nel bacia mano gli uomini cerimoniosi ad un contatto ravvicinato nella profondità della sua scollatura”. Otto Dix, pittore tedesco attivo tra le due grandi guerre, è un artista che sfugge alle definizioni: espressionista, cubista, realista, dadaista, tutte assieme e nessuna di queste vesti, ma soprattutto un implacabile scrutatore e testimone della realtà. E’ colpito dalla bruttezza e dalla banalità, dagli orrori della guerra, ma anche dalle ingiustizie della vita quotidiana. Fu il fautore del ritorno ad una sorta di figurativo dopo l’azzeramento linguistico operato dalle avanguardie. Tutta la sua produzione è intrisa da un realismo acuto, carico di amara moralità e di significati simbolici. La sua denuncia accese l’ira del nazismo, che considerò degenerate tutte le sue opere del periodo dada e realista, condannandole alla distruzione. I seni di Otto Dix costituiscono un universo composito, dai numerosi gironi infernali, nel quale l’autore si è sbizzarrito, cercando ora l’orrido ora il tenebroso, ma costantemente l’orripilante ed il viscido. Per tutta la vita, instancabilmente, la sua morbosa fantasia ha partorito in serie donne sgraziate, vestite ma più spesso nude, giovani e vecchie, gentildonne o puttane, legate sempre da un robusto filo conduttore: il seno come luogo da incubo e strazio della vista. Nel Ritratto di vecchia puttana malata (173), di collezione privata, abbiamo la malinconica immagine di una vecchia prostituta in attesa, nuda con una coperta sulle spalle, della visita medica in un dispensario dermoceltico. Gli occhi sono ancora vivi e pungenti, mentre le mammelle: due fari penetranti di automobile ieri, due sconfitte bandiere a mezz’asta oggi. Abituate all’esibizione ed all’indefessa palpazione degli smaniosi clienti sono ora tristemente pendule, svuotate, distanziate tra loro da una valle che ha solcato uno spazio infinito, con i capezzoli mangiati da un’orda di morsi famelici e su di loro, implacabile, ha lavorato lo scorrere del tempo che, giorno dopo giorno, ne ha rubato sostanza e vitalità, fino a renderle due vecchie calzette stese ad asciugare. Nella Donna gravida (174), di collezione privata, facciamo la conoscenza con due terribili bovini, che altro non sono le due mammelle empie ed afflosciate sull’addome batraciano di una gravidanza a termine, pronte attraverso il latte a dare e perpetuare la vita. Esse sono l’evidente contraddizione tra utile e bello e di come i concetti della filosofia fatichino non poco ad incastrarsi sui dati della realtà. Sfiancate dalla danza degli ormoni, piene di grasso, che protrude financo dalle ascelle, hanno subito impavide il sacrificio della loro bellezza per adempiere al divino perpetuarsi della specie. Glorioso compito e che altro non sono che medaglie al merito le ampie areole, pigmentate e dilatate oltre misura dalla pregnante gestazione, sulle quali piccole escrescenze, i tubercoli di Montgomery, hanno issato la loro bandiera, sublime apoteosi dell’amore. Frida Kahlo, artista messicana, moglie di Diego Rivera, è stata a lungo oscurata dalla fama del marito, di cui condivise l’impegno politico e solo negli anni Ottanta è stata riscoperta dalla critica femminile, raggiungendo una vasta notorietà anche grazie ad un fortunato film. Da giovane subì un gravissimo incidente, che segnò profondamente la sua esistenza di donna e di artista e le procurò una dolorosa e permanente forma di invalidità. La sua pittura realistica e visionaria fonde motivi naif e stilemi del folclore messicano. Il ricorso esasperato ad una simbologia feticista ed un narcisistico impulso ad esibire le proprie fantasie ed allucinazioni le guadagnarono l’interesse dei surrealisti. Costella gran parte della sua produzione pittorica di autoritratti, che la colgono nei momenti culminanti della sua esistenza, dalla nascita all’allattamento, ben espresso nella tela La mia Balia ed io (175), di collezione privata, nella quale ci rammenta che il seno alla fine è semplicemente un ammasso di ghiandole aggrovigliate e che la sua principale finalità è dare nutrimento. Le due mammelle della balia sono viste, una in sezione e l’altra coperta dalla cute, ma entrambe secernenti gocce di latte, mentre Frida ha il volto adulto a rimarcare il legame ancestrale e duraturo che ci lega al seno materno, anche se si tratta di seno mercenario come nel caso in questione. L’allattamento infatti, prescindendo dall’aspetto nutrizionale, rappresenta la forma più arcaica di comunicazione e l’affettività si consolida attraverso il contatto pelle contro pelle, con la bocca che cerca il capezzolo e la mano che porge salutari carezze, consolidando una relazione destinata a durare tutta la vita. Marc Chagall, di famiglia ebrea, studiò a Pietroburgo, prima di recarsi a Parigi dove si accostò al movimento cubista. Dopo un breve ritorno in patria nel 1922 si trasferì definitivamente a Parigi, che divenne la sua seconda patria e dove frequentò quella variopinta consorteria di apolidi, ebrei, immigrati che, tra Montmartre e Montparnasse, diedero luogo a più di una leggenda. La sua poetica è dominata dal ricordo della Russia religiosa col suo mondo contadino ricco di racconti, nei quali, sacro e profano, reale e miracoloso si mescolano in maniera stupefacente. Il suo stile è inconfondibile, ricco di colori caldi e di morbidi effetti di luce, mentre le figure talvolta presentano una scansione geometrica che richiama la lezione del cubismo. Il ritmo narrativo induce alla tenerezza, con personaggi resi eterei ad interpretare sogni fantastici venati di malinconia, in un vortice di uomini volanti, case capovolte, animali parlanti e forme mostruose e mirabolanti. La storia d’amore fra Chagall e l’amatissima moglie Bella ha ispirato numerosi quadri tutti trasudanti gioia e felicità, tra questi un posto particolare occupa A mia moglie (176), conservato a Parigi nel museo d’arte moderna, realizzato nel 1933 ed in seguito modificato profondamente dall’artista. I vari elementi del dipinto, prima nettamente staccati, vengono fusi dalla stesura morbida del colore nel quale le immagini fluttuano beate, rendendo visibile agli occhi ciò che prima si vede solamente con il cuore. I toni sono accesi e la narrazione intreccia sogni fantastici, che ripercorrono il tenero amore del pittore per la donna della sua vita, con le note di una dolce poesia. Accensione cromatica, scomposizione e compenetrazione dei piani, simultaneità e combinazione surreale delle immagini, materializzano una visione simile ad una fiaba, una favola incantevole nel cuore dell’arte moderna. La composizione è imperniata sui due sposini, ritratti al centro tra suoni di violini e voli di angioletti, con Bella, prima nel suo bianco abito nuziale e poi, a destra, nello sfolgorante biancore delle sue carni vellutate offerte a Marc per la prima notte d’amore. Il corpo della giovane fanciulla è casto e puro ed i seni, sui quali splende una preziosa collana, sono privi di ogni malizia, sferici e perfetti, tersi e soavi, profumati e saporiti. René Magritte, pittore belga, inizia la sua attività influenzato dal Cubismo e dal Futurismo, le avanguardie del Novecento, che allora dettavano legge. Aderirà poi al movimento surrealista, trasferendosi a Parigi dove vivrà tre anni. Egli dipinge quadri infantili ed ama giocare con gli spostamenti del senso, utilizzando accostamenti inconsueti, come cieli diurni e paesaggi notturni e deformazioni irreali e sforzandosi sempre di separare la realtà dalla rappresentazione. A tal proposito è celebre l’esempio del suo quadro intitolato Questa non è una pipa, nel quale invita a constatare che la pipa raffigurata è qualcosa di diverso da una pipa reale. Fu influenzato dal nascente cinematografo e dai personaggi mitizzati sul grande schermo, come Fantomas, che divenne protagonista di vari suoi quadri ispirati a tematiche poliziesche o dell’orrore. Nella sua pittura illustra oggetti e realtà assurde, utilizzando tonalità fredde, ambigue ed antisentimentali e, a differenza di altri surrealisti, nella sua poetica non vi è spazio né per il mondo del sogno, né per le pulsioni dell’inconscio; unica sua intenzione rimane quella di far percepire il silenzio del mondo, attraverso non senso, irrazionalità, mistero e principalmente lo stordimento dell’uomo moderno, sperduto in un mondo di immagini, simboli e convenzioni. Le viol (177) (Lo stupro), realizzata nel 1934 e conservata ad Houston nella collezione Menil, raffigura un incubo: un volto di donna costituito dagli elementi essenziali del suo corpo. L’idea alla base di questa composizione, più volte replicata con leggere varianti dall’artista, è semplice ed efficace: rappresentare la violenza che lo sguardo di un uomo è in grado di infliggere al corpo di una donna, trasformando il suo volto in un puro oggetto del desiderio, di cui usufruire per poi buttarlo via. Magritte priva il volto di ogni dignità, di ogni espressione, di ogni sentimento, trasformandolo in un idolo di carne pronto per l’uso. Il meccanismo preferito da Magritte per giungere alla rappresentazione surreale è quello di coprire il volto dei personaggi ritratti per cancellarne l’identità. In questo dipinto egli, sovrapponendo ai tratti del viso di una donna il suo torso con i suoi attributi più significativi, tende ad umiliare l’oggetto sessuale, che diventa cieco, sordo e muto, con i seni che ti fissano, il naso che si atrofizza fino a divenire l’ombelico e la bocca pube che si dispone in una smorfia di acuta sofferenza. I due seni tradiscono una stupidità infinita, un’idiozia subita che stimola il riso ed induce al pianto, una stupidità nello sguardo che si tramuta in violenza inaudita al corpo della donna. I seni stupidi sono sempre molto piccoli, perchè la dimensione tende ad annullare la stupidità, sono privi di interesse e sono insipidi, cattivi ed in grado di ogni meschinità. Non sono che inutili palle di carne, ciondoli vani di una scomparsa femminilità. Una variazione sul tema mammario ed una parziale conferma di quanto sottende allo Stupro lo possiamo percepire in un’altra opera dell’artista, eseguita nel 1937, In memoriam Mark Sennet (178), detta pure La filosofia del boudoir, conservata nella collezione civica della città di La Louviere, che raffigura una candida camicia da notte dalle pieghe sinuose, echeggianti quelle di una donna e sulla quale troneggiano due seni misteriosi ed imploranti, che richiamano a viva voce il sesso di una proprietaria inesistente, ma implicita nella calda sensualità del capo d’abbigliamento. Il dipinto fu di proprietà di Achille Chavée, protagonista del gruppo surrealista Rupture, mentre Mack Sennet fu il celebre produttore cinematografico che lanciò il genere comico e realizzò tra il 1912 ed il 1930 oltre 500 film, con famosi attori quali Charlie Chaplin, Buster Keaton, Gloria Swanson e più tardi il duo Laurel e Hardy. Magritte è stato un grande appassionato di cinema, sia poliziesco che comico ed i grandi attori hanno avuto per lui, come egli stesso confessa nei suoi scritti, la stessa importanza di grandi letterati come Stevenson e Poe. Le opere dell’artista belga sono immobili, silenziose, pervase da una sensualità irriverente e feroce, meravigliano l’osservatore, né più né meno delle comiche, basate sul riso e sull’ironia. Nella tela in esame i seni restano bloccati nella vestaglia appesa al guardaroba, dando luogo ad un’atmosfera a metà strada tra il pensiero galoppante che la informa e la caustica comicità di un’immagine angosciante. Stanley Spencer è tra i massimi maestri della pittura britannica del Novecento. All’inizio della sua attività fu vicino ai modi dei preraffaeliti, per dedicarsi poi esclusivamente a quadri non convenzionali di un espressionismo caricaturale, intrisi da un singolare gusto dell’enfasi e della deformazione. L’arte non deve essere sempre e soltanto una glorificazione della bellezza femminile, nell’ottica neoclassica benedetta dal Winckelmann di un corpo perfetto e senza difetti, sintesi mirabile di vigore ed armonia, come piaceva agli artisti ed ai filosofi greci. La modernità attraverso l’espressionismo prima ed il cubismo poi, sconvolge il modo di configurare l’immagine e preferisce una rappresentazione realistica anche del brutto e dell’orrido ed a volte dello squallore e del degrado fisico, resi con il linguaggio dell’angoscia, della polemica, della teatralità, ma sempre nel puntuale rispetto del dato reale. E’ una rivoluzione copernicana nell’ideale estetico, ritenuto un dogma per molti secoli. Nel dipinto Ritratto di due nudi: l’Artista e la sua seconda moglie (179), realizzato nel 1936 e conservato a Londra nella Tate Gallery, Spencer ci offre in visione lo sgangherato corpo della sua seconda moglie, incurante dei nefasti effetti che un seno sgradevole in massimo grado, cascante e rattrappito ed un cespuglio arruffato e nauseabondo possono produrre sul lecito desiderio erotico dell’osservatore. L’opera fa parte di un gruppo di 7 quadri che vedono effigiato l’artista, da solo ed in compagnia delle sue due mogli, sempre rigorosamente nature. Spencer pone il corpo della moglie su un altare ideale e situa in primo piano un pezzo di carne di montone, per sottolineare che l’uomo non è solo spiritualità, più o meno nobile, ma anche e soprattutto corporeità, con i suoi istinti e con le sue dolci sensazioni, come quelle che egli ci confessa che provò per la prima volta, accarezzando il corpo della sua prima moglie, evidentemente più giovane ed attraente. Egli adora e contempla il corpo della sua metà, sdraiato su un altare ideale, con grande serietà e con un senso di profonda religiosità. Si appresta al sacrificio…come il prete che consacri l’ostia sull’altare. Si raccoglie e medita sull’equilibrio necessario per confrontarsi con l’immensità cosmica, fino a raggiungere un’estasi mistica provocata. Queste sensazioni e questi pensieri blasfemi non sono stati ipotizzati dai critici, la cui fantasia notoriamente è senza limiti, ma sono la diretta testimonianza dell’artista, che ha corredato i suoi dipinti con una serie di scritti esplicativi, gelosamente conservati presso l’archivio del museo. Max Ernst, pittore tedesco, dopo aver studiato filosofia e psichiatria, si avvicina all’arte, fondando un gruppo dadaista, quindi, trasferitosi a Parigi conosce André Breton ed aderisce al surrealismo, che contribuirà ad esportare negli Stati Uniti nel dopoguerra. Crea ed utilizza alcune originali tecniche, dal collage, che gli consente di accostare sullo stesso piano immagini di realtà diverse tra loro, al frottage, per portare alla luce sensazioni sepolte nel subcosciente con un meccanismo automatico indipendente dalla volontà. Infine, durante il soggiorno americano, adopererà il dripping, un mezzo espressivo dell’Action Paintig americana, derivato dalla scrittura automatica surrealista e basato sul colore che viene lasciato casualmente sgocciolare sulla tela da un contenitore bucherellato. Attraverso queste tecniche Ernst evoca mondi fantastici, nei quali l’orrido si mescola col patetico, la logica cede al caso, la razionalità alle più incredibili allucinazioni. Adopera un linguaggio al di fuori di ogni convenzione ed a differenza di altri surrealisti, come Magritte o Dalì, che accettano la geometria euclidea ed adottano la consuetudine prospettica, crea un suo spazio originalissimo e conduce l’osservatore negli abissi dell’irrazionale, tra paesaggi misteriosi ed inquietanti, nei quali ribollono forze incontrollate e raccapriccianti, intrise di un erotismo fuori da ogni regola, che la morale e l’educazione tengono normalmente sepolte nell’inconscio più profondo. Sin da giovane ebbe ricorrenti visioni e fu perseguitato da uccelli fantasmagorici, che egli inconsciamente collegava con l’occulto e la magia e questi astrusi animali si incontrano frequentemente nelle sue opere. La Vestizione della sposa (180), un olio su legno eseguito nel 1939 e conservato al museo Guggenheim di Venezia, è un esempio del surrealismo veristico di Max Ernst. L’opera fu donata dall’artista alla famosa miliardaria americana, che fu anche la sua terza moglie. La scena rappresentata, di pregnante erotismo, con dieci seni a fare da fulcro alla composizione, ha dato luogo alle più diverse interpretazioni, anche sulla guida degli scritti dell’artista, ma non bisogna dimenticare che il suo genio confinava pericolosamente con la follia. L’evento si svolge in uno spazio che ricorda più l’architettura del Manierismo, che l’arte del Rinascimento e richiama il rituale della preparazione della cerimonia nuziale. L’uomo uccello compare come un servitore, mentre il raddoppiamento dell’immagine nello specchio evidenzia la ponderazione e l’importanza dell’avvenimento. La presenza di due figure femminili in aperta tensione tra di loro è il segno tangibile di un incontro ravvicinato o di un conflitto amoroso, senza dover scomodare, come ipotizzato da taluni critici, i riti iniziatici rosacrociani. La figura femminile centrale è la vera protagonista della scena con il suo incedere flessuoso, il suo corpo sinuoso dalla coscia interminabile e dai seni sbarazzini e scavezzacolli, che fuoriescono spavaldi dal manto piumato di color arancio, che culmina con una testa da rapace. Ai suoi piedi una grottesca figura con quattro seni ed i piedi palmati rimembra le atmosfere diaboliche evocate dal pennello di Bosch o di Brueghel. Al suo fianco la cinge un uccello dalle piume verdi e dalle chiare intenzioni bellicose, ben espresse dalla punta di freccia, un evidente simbolo sessuale, che taluni hanno identificato con Loplop, l’alter ego dell’artista ed in tal caso la sposa sarebbe la giovane pittrice surrealista inglese Leonora Carrington, con la quale Ernst conviveva in una vecchia casa a nord di Avignone, che egli trasformò in una sorta di bestiario. Ed è in questa sgangherata dimora che nel 1939, prima che il pittore venisse internato ad Aix en Provence come straniero indesiderato, che nasce l’idea del quadro ispirato al romanzo di collage Una settimana di bontà. La tecnica usata dall’artista è la decalcomania, nella quale il colore diluito viene pressato sulla superficie tramite uno straccio, manovra che produce una distribuzione irregolare, che si increspa in forme e trame casuali e dà luogo ad una suggestiva trama sgranata. Paul Delvaux, pittore belga, è tra i principali esponenti del movimento surrealista, compagno di viaggio di Giorgio De Chirico e Renè Magritte, di Costant Permeke e Leon Spilliaert. Un profondo legame artistico unisce questi grandi pittori. Pur con approcci stilistici diversi, essi sviluppano un interesse specifico verso un’arte che trascenda il reale ed entri in diretto contatto con la dimensione onirica, vero epicentro della poetica surrealista, nata in seguito all’elaborazione delle ricerche della psicanalisi. Il percorso artistico di Delvaux pone l’accento sul sogno e sulla mitologia. Le sue opere, fantastiche, minuziosamente rifinite per la sua indiscussa abilità di disegnatore, sono spesso ambientate tra le rovine di antiche città immerse in una luce lunare. I suoi dipinti sono legati all’immagine diafana e sensuale del corpo femminile, che si presenta come un essere arcano, talora trasfigurato in metamorfosi vegetali e collocato in paesaggi surreali, dove i simboli della modernità convivono con le architetture della Grecia classica a testimoniare contaminazioni di stili provenienti da epoche diverse. La Nascita del giorno (181), conservato a Venezia nella collezione Guggenheim, raffigura quattro donne ridotte parzialmente a vegetale, anche se con robuste radici, una edizione arborea delle mitologiche sirene, una costante nella poetica del Delvaux, solitario esploratore dell’immagine, che si inoltra senza timore tra i nodi mirabolanti della psiche, aprendo una finestra sulle nostre più segrete pulsioni. La fonte a cui attinge generosamente è la profondità della nostra coscienza, dove l’inorganicità del simbolo convive con la forza proliferante dell’energia elementare. Egli ama definire creature ibride immerse in un paesaggio antico e proiettate in un futuro da brivido, un incubo che ci insegue dagli albori dell’umanità. Negli anni in cui l’artista dà corpo nei suoi dipinti ai fantasmi dell’inconscio, l’abbinamento esplicito tra donna ed albero è presente anche in molta poesia surrealista da Breton ad Aragon. Le quattro fanciulle, tra le quali la seconda da destra ha il volto della modella prediletta dell’artista, sembrano parlarsi per mezzo di una gestualità antica, che ben si intona con i ruderi cespugliosi tra i quali è ambientato l’inquietante episodio. Esse sono orgogliose dei loro seni statuari, materializzazione delle fantasie primordiali degli uomini, dei più reconditi desideri, nascosti sotto le spoglie di un’immagine dal fascino perturbante. Nel centro del dipinto troneggia uno specchio che riflette una mammella, anelito che popola i nostri sogni, che si estrinsecano in queste solide giovinette, un tripudio di giovinezza e beltà, una gioiosa miscellanea di seni a mela ed a pera, la meta ineludibile delle nostre oscure ambizioni, il porto sicuro dove fermarsi e riposare per sempre. Salvador Dalì, pittore spagnolo noto per la sua eccentricità, è autore di quadri originali dalla pennellata fluida e sfuggente, nei quali sogno e realtà si fondono alla perfezione. Espulso dall’Accademia di Belle Arti di Madrid, si recò a Parigi dove venne a contatto con il vivace ambiente culturale della capitale francese, conoscendo Picasso, Breton ed il poeta Eluard, di cui sposerà la moglie. Accolse entusiasta le teorie del surrealismo, un movimento che gli permetteva di esprimere al meglio la sua dilagante immaginazione. Dalì dava libero sfogo al suo inconscio, che si tramutava in forme bizzarre sulla tela, grazie anche ad un virtuosismo tecnico pregevole. Attento lettore di tutti gli scritti di Freud, nelle sue opere rappresentava il momento critico in cui il delirio creativo prende forma caratterizzato da un nitore del disegno e da un cromatismo vivace. Importante è stato il suo contributo in altri campi come sceneggiatore di alcuni film di Bunuel, creatore di oggetti bizzarri, letti, poltrone, vasi girevoli, che riscuotevano grande successo commerciale, grafico; celebre la sua illustrazione della Divina Commedia. Negli ultimi decenni della sua vita la sua fama è cresciuta a dismisura più come personaggio eccentrico, a volte prigioniero della sua immagine delirante, che come artista, stanco ripetitore delle sue geniali creazioni degli anni giovanili, ma la sua opera conserva un posto di rilievo nella storia dell’arte moderna, perchè ha saputo immortalare le nostre più recondite pulsioni dell’inconscio e ha dato spazio al fascinoso mondo dei sogni ad occhi chiusi ed aperti. Nel Sogno (182), realizzato nel 1944 e conservato a Madrid nel museo Thyssen Bornemisza, abbiamo una dimostrazione della sua metodica pittorica, che lo stesso Dalì definì paranoica critica, tendente a rivelare l’irrazionalità intrinseca del mondo quotidiano attraverso riferimenti letterari, più esibiti che vissuti e ossessivi richiami sessuali. Nell’opera prevale un effetto illusionistico ed una complessità di meccanismi automatici di sensazioni, in uno spazio prospettico dilatato in cui sono inseriti, oltre allo spettacolare corpo nudo di Gala, animali ed oggetti. La modella è Gala Diaconova, già moglie del poeta Eluard, amante di Dalì in un primo momento e poi moglie, madre, musa, consigliera, angelo custode. La procace signora russa, più anziana di quasi 15 anni di Salvador, prima di divenire sua moglie, aveva frequentato con assiduità e biblicamente molti esponenti dell’intellighenzia europea, dei quali era stata moglie, amante fissa od occasionale. Gala rappresenta il prototipo di quella marea di donne dell’Est, più o meno nobili, più o meno attraenti, che, trasferitesi in Europa occidentale, hanno rivestito per decenni un importante ruolo culturale in Francia, Italia, Germania ed anche nel mondo anglo sassone. Sono state alla base di molte idee nate non solo nella pittura e nella scultura, ma anche nel teatro, nella letteratura, nella musica. Queste russe emigrate, molte di religione israelita, rappresentano un capitolo della cultura europea ancora poco conosciuto, sono le nonne…, colte e raffinate, delle orde che hanno invaso l’occidente dopo la caduta del muro di Berlino ed il dissolvimento dell’impero sovietico, muse ispiratrici di grandi uomini ieri, badanti, modelle, avventuriere oggi, ogni tempo ha ciò che si merita. Gala è la modella di molti quadri dell’artista spagnolo, sempre nuda e sensuale, con i seni sodi e spaziosi ed i capezzoli baldi e pungenti sempre in primo piano; nel mondo figurativo di Dalì rappresenta uno degli ingredienti più certi del suo inconscio: la libido. L’ispirazione del quadro venne da una puntura di un’ape mentre la donna stava dormendo. Di conseguenza l’acme del dolore avviene in un momento di incoscienza, dando luogo ad una serie di sensazioni ingigantite dall’assenza del controllo cosciente. Il dipinto fissa una sequenza di istanti precedenti e posteriori: la puntura è simboleggiata dalla baionetta che sta per trafiggere, chiaro richiamo fallico, il dolore è dato dall’irrompere delle allucinazioni, quali le tigri inferocite che fuoriescono dalla bocca di un pesce, che a sua volta spunta da un melograno; senza calcolare l’elefante con le gambe da insetto che cammina, novello Gesù, sul pelo dell’acqua. Il corpo di Gala è sempre giovane, anche se, quando viene realizzato il quadro, la modella ha oltre cinquanta anni, segno evidente che la sua bellezza vive eternamente nella memoria del pittore, rimasto stregato come tanti altri uomini dai suoi seni mirabili ed esplolsivi, stupefacenti ed apparentemente irraggiungibili. Lucian Freud nasce a Berlino, ma trasferitosi con la famiglia in Inghilterra nel 1933, poco dopo l’ascesa al potere di Hitler, ottiene la naturalizzazione britannica. Secondo i maldicenti la sua carriera fortunata è stata favorita dal suo cognome, suo nonno era un certo Sigmund, fondatore della psicanalisi, dai suoi matrimoni, dalle sue amicizia con la Londra che conta, dal regista di 007 Ian Fleming al precedente marito di Camilla, neo sposa di Carlo d’Inghilterra, per finire anche da suo nipote, genero del re dell’informazione mondiale, il plurimiliardario Murdoch. Alcuni critici stizzosi lo hanno definito il “peggior importante artista di fine secolo”. Le sue prime prove pittoriche tendono all’espressività intensa, deformando volti ed oggetti in ossequio alla corrente della Nuova oggettività, egli palesa inoltre uno straordinario spirito di osservazione del reale ed una forte adesione concettuale ad esso, che si farà con gli anni sempre più incisiva. Le sue opere provocano un asfissiante senso di angoscia, senza un apparente coinvolgimento dell’artista. Freud predilige il ritratto e col tempo si infittiscono i nudi sia maschili che femminili. I suoi personaggi sono corpi impietosamente trasferiti sulla tela, sono corpi inermi, arrendevoli nella loro oscenità. Spesso giacciono riversi o sul fianco e per definirli l’artista adopera robuste pennellate, in uno scontro ideale tra l’immagine reale ed il pensiero dell’esecutore, un tormentoso confronto frequente nella pittura moderna. Donna con cane bianco (183), eseguita tra il 1950 ed il ’51 e conservata alla Tate Gallery di Londra, raffigura la sua prima moglie, sorella dello scultore Epstein ed il suo cane di razza whipped, in piacevole compagnia. La donna è sottoposta ad una spietata introspezione psicologica e gli occhi e la bocca sono definiti con crudo realismo, come in tutte le tele del primo periodo di Freud, una caratteristica che scomparirà nelle opere eseguite dopo il 1958. Il cane, una presenza frequente nei quadri dell’artista, ha la pelle sottile e spessa e sonnecchia placidamente. Appartiene ad una razza molto affettuosa, che dorme volentieri con il padrone, col quale stabilisce un’intesa molto stretta. La padrona, sicura della mansuetudine dell’amico fidato, sembra offrirgli un seno smunto ed esangue, di un biancore evanescente nella parte inferiore, mentre nella parte alta, frutto di una lunga quanto vana esposizione al sole, presenta una epidermide rosata, di quella speciale fattura anglosassone che imporpora facilmente, divenendo quasi asfittica. La donna, come tutti coloro che cercano nel cane, amico fedele per antonomasia, conforto alla solitudine, è affetta da un’angoscia ed un dolore spirituale, ben distinto da quello fisico aduso a tormentare il corpo, mentre quello che affligge la signora Freud, assilla la sua anima. Un mal di vivere che troverà, tra i contemporanei dell’artista, altri cantori in Francis Bacon ed Alberto Giacometti. Paolo Ricci nasce come fabbroferraio ed è sostanzialmente un autodidatta. Dopo un viaggio a Parigi si avvicina per un breve periodo al surrealismo, quindi, tornato a Napoli esegue numerosi ritratti di amici e letterati e fonda nella sua dimora, villa Lucia, un cenacolo di artisti ed intellettuali di sinistra. Villa Lucia è una splendida abitazione immersa nel verde, contigua alla Floridiana e di recente appetita dal cavaliere Silvio Berlusconi. Nel dopoguerra Ricci diviene un convinto assertore, sia in veste di critico che di pittore, della validità del Neorealismo. Negli anni successivi la sua ricerca tende ad approfondire alcune dissonanze cromatiche e ad introdurre valenze simboliche e metafisiche dentro una raffigurazione iperrealistica. Un esempio calzante è costituito da Eisenhower (184), eseguito nel 1951 ed in collezione privata napoletana, una graffiante dimostrazione del suo realismo politico ispirato a volte al Grosz, ma sempre con risultati di indubbia efficacia comunicativa. Il dipinto è una triste silloge dei più penosi segni dell’occupazione americana a Napoli durante la seconda guerra mondiale. Il generale Eisenhower, con il suo ghigno schifoso reso più repellente da una chiostra di denti sgangherati e rampanti, troneggia vittorioso con in una mano una forca, ad eloquente dimostrazione di come intende amministrare la giustizia e nell’altra una manciata di dollari con la quale è certo di poter comprare tutto, anche la dignità della popolazione affamata. Coca Cola e macabri teschi concludono la carrellata di simboli, nel frattempo una prostituta, improvvisatasi nel più antico mestiere del mondo, si avvicina premurosa offrendo un seno polposo e smagliato agli appetiti lubrici e sozzi del novello vicerè di Napoli. La cellulite ha vistosamente scavato nel sedere dell’attempata signorina…mentre le due mammelle pendule, incorniciate da una medaglietta col simbolo del dollaro, danno l’impressione di una gomma masticante attaccata al petto o, peggio ancora, di una gomma dilatata e stanca. La triste sensazione che producono al tatto i seni mercenari, sballonzolati e succhiati con avidità fino a divenire due misere bisacce, prive di materia e con i capezzoli mangiati, è quella della vanità, di due miseri palloni gonfi di aria, che rischiano di afflosciarsi al minimo movimento falso. Piero Manzoni a partire dal 1950 si avvia verso un’intensa ricerca e sperimentazione, condotta sia sul piano estetico concettuale che sul piano tecnico materiale. Inizia così una fase di materializzazione dell’arte, che sfocerà in realizzazioni sempre più ardite e bizzarre. Tra queste provocazioni da ricordare: Base magica, una piattaforma sulla quale chiunque fosse salito sarebbe diventato un’opera d’arte e le 90 lattine di merda d’artista vendute a peso, alla quotazione dell’oro, accolte dal vasto pubblico come un vero scandalo, anche perché l’artista, nelle interviste rilasciate alla stampa, affermava che dopo aver defecato si sentiva un novello Michelangelo. Quindi comincia a firmare le prime sculture viventi, garantendole con un certificato di autenticità. Quella che esaminiamo, Modella firmata (185), realizzata nel 1961 e presentata a Roma alla Galleria la Tartaruga fece scalpore non tanto per la fanciulla nuda, dai seni seducenti, quanto per l’originalità dell’idea. In seguito si invitavano tutti i visitatori del vernissage ad eseguire loro stessi opere d’arte, usufruendo di gentili fanciulle, che mettevano a disposizione della creazione, seni prorompenti, glutei invitanti ed addomi a lavagna. Per anni sulle spiagge abbiamo potuto osservare miriadi di pseudo artisti intenti a trasformare con il loro autografo in ipotetiche opere d’arte viventi le spesso scalcinate proprietarie di sederi e poppe, senza sapere che, come abbiamo visto trattando del Cinquecento, non vi era nessuna novità nell’atto irriverente, eseguito da Raffaello sul braccio della Fornarina e da Tiziano nel profondo della scollatura della bella Violante. Enrico Baj, comincia a dipingere a 14 anni, anche se si indirizza prima agli studi di Medicina e poi di Giurisprudenza, materia in cui si laurea. Nel 1952 fonda il Movimento nucleare di cui firma il manifesto ed in seguito si avvicina al surrealismo, partecipando a numerose mostre e sperimentando varie tecniche, dal dripping alle emulsioni di colori sintetici. Entra in rapporto con numerosi letterati e poeti ed illustra diverse edizioni di testi classici e moderni. Negli anni Ottanta elabora un nuovo stile con opere pittoriche nelle quali è protagonista il manichino, entro strutture che riecheggiano la metafisica. Comincia la collaborazione con importanti testate giornalistiche e scrive alcuni libri, tra cui, nel 1982, Patafisica. Adamo ed Eva (186), realizzato nel 1964 ed oggi in collezione privata milanese, è un olio e collage su tela ed è una rilettura moderna del primo peccato, in linea con la tradizione surrealista francese e con uno spiccato gusto per il burlesco e per la satira. L’Eterno padre sta ammonendo i nostri progenitori prima di cacciarli via dal Paradiso terrestre e mentre Adamo ascolta spaventato, Eva sembra deriderlo con sufficienza, forte di un pettorale da sogno, il primo seno dell’umanità, che creava un perfetto angolo retto con il piano del torace, angolo che subito dopo cominciò a perdere dei gradi e a declinare irreparabilmente. La sua forma ideale non è stata mai più eguagliata, neppure oggi che, col trionfo della mastoplastica, i seni si producono in serie su ordinazione. Per fabbricarli così armoniosi e svettanti, malandrini ed arroganti, con il capezzolo all’erta, il Creatore adoperò uno stampo speciale, nel quale riversò tanto amore e fu paziente nel definirne ogni più piccolo particolare. Da quelle floride mammelle è derivato il nutrimento di tutti noi, un latte puro, salubre e tonificante, una sorgente imperiosa e prodiga, che non si è mai inaridita. L’artista col suo pennello li ha scolpiti anche lui con grande amore, magnifici e superbi, appetibili e voluttuosi, sferici e sodi, invitanti ed inevitabili, ma soprattutto indimenticabili. Bruno Cassinari all’inizio della sua carriera gravita intorno ad Ernesto Treccani e solo nel dopo guerra aderirà alla Nuova Secessione artistica Italiana, mentre negli anni Cinquanta le sue opere tradiscono l’influenza della suggestione cubista, in cui il registro dei colori è abbassato dall’invadenza della luce, che sembra quasi dissolverli. Ama anche dedicarsi all’incisione e nel 1968 realizza numerose acqueforti ed acquetinte. L’anno successivo illustra il Satyricon. Negli anni Settanta il suo furore creativo si esprime anche nella lavorazione del vetro e sarà l’artefice di grandi vetrate per la chiesa dell’Annunciata a Sant’Agata dei Goti e per la basilica di San Domenico a Siena. In questa Illustrazione per il Satyricon di Petronio (187), eseguita nel 1969, il seno della modella è la meta agognata di una moltitudine di altre donne, che ardono di poter stringere tra le loro mani vogliose i due cospicui pomi del desiderio, tosti e ben modellati e dalle curve sinuose che sfioccano con esuberanza. La scena si svolge in quella labile linea di confine tra sogno e veglia, tra realtà e fantasia, tra desiderio e repressione, in un clima saffico di omossesualità esplicita e sfacciata. Il volto della fanciulla si confonde con quelli delle compagne e tutte sembrano animate all’unisono da uno sfrenato desiderio di dare e ricevere carezze, in perfetta sintonia con la cultura pagana, che domina il racconto del celebre scrittore romano. Balthazar Klossowski de Rola, detto Baltus, è pittore visionario, potente evocatore di un mondo fantastico popolato di fanciulle impuberi viste con malcelata malizia, a tal punto che la critica meno attenta gli ha più volte proposto l’appellativo imbarazzante di artista culturalmente pedofilo. Le bambine ragazze di nove, dieci anni, protagoniste delle sue tele inquietanti, hanno il seno piatto appena sbocciato ed il pube glabro e si abbandonano in pose voluttuose da consumate maliarde, senza mai guardare negli occhi l’osservatore e spesso specchiandosi ansiose di scorgere sul proprio corpo le agognate trasformazioni indotte dalla pubertà. Nel Gatto allo specchio I (188), di collezione privata, prima di una serie di tre tele trattanti lo stesso tema, l’artista, nel 1980, raffigura una bambina che cerca di intravedere allo specchio la linea acerba dei suoi seni e nel frattempo intrattiene un curioso gioco con il gatto, che invita a specchiarsi. Anche Baltus, come tanti illustri colleghi del passato, soggiace al fascino misterioso della donna che si guarda allo specchio, allegoria spesso correlata alla vanità ed alla bellezza, ma in questo caso la giovane, nella sua ancora innocente nudità, si avvicina alla contemplazione con il volto arrossato e lo sguardo ironico, priva di peccati e forse ansiosa di commetterli. La ragazza è felice della sua età e delle sue delicate forme, che sbocciano radiose e, divertita, sembra voler provocare ed attirare il felino in un rituale dalle regole misteriose, mentre il suo corpo, dalle gambe simbolicamente allargate e dal busto leggermente eretto appare stilizzato in una posa innaturale e di non facile equilibrio. I suoi seni crescono lentamente, ma quanto prima saranno piccoli e ben rotondi, teneri e desiderabili. Fernando Botero, pittore colombiano, è attirato fin da ragazzo dal mondo delle corride e frequenta per due anni una scuola per toreri. Si trasferirà poi in Italia dove frequenta a Firenze l’Accademia di San Marco e comincia a caratterizzare la sua produzione espandendo e dilatando le forme anatomiche con una originale modalità, che costituirà il segno distintivo e riconoscibilissimo del suo stile. A New York scopre l’Espressionismo astratto e negli Stati Uniti allestisce le sue prime mostre all’inizio degli anni Sessanta. Nel decennio successivo il suo stile plastico comincia ad emergere in molte opere connotate da colori tenui e delicati. I quadri di Botero nascono per soddisfare un’insopprimibile esigenza di ricerca interiore. La sua tavolozza vive di colori gentili, gialli paglierino e verdi rosati e della completa assenza delle ombre, che egli teme possano inquinare l’idea che vuole trasmettere sulla tela. Ama dilatare senza limiti le forme anatomiche ed i suoi personaggi acquistano dimensioni esuberanti, apparentemente irreali, dove il dettaglio diventa la massima espressione ed i grandi volumi trionfano indisturbati. La trascendenza dell’artista, a cui nulla interessa della condizione umana, rende i protagonisti delle sue opere dei prototipi senza dimensioni morali o psicologiche, senza anima. Essi non provano gioia né dolore, hanno lo sguardo perso nel vuoto oppure strabico, non battono le ciglia, vedono senza vedere. Grazie allo stellare distacco emotivo, la sua pittura acquista la dignità e la serafica tranquillità del grande classicismo. Nella Donna seduta (189), realizzata nel 1989 ed in collezione privata ginevrina, l’enorme bambinona, nella sua innocente nudità, si raffigura come Venere e non è certamente più volgare di un frutto ben maturo, con la sua scorza o sbucciato, decisa nello sguardo, invitante ed accogliente. Ella si predispone all’occhio esterrefatto dell’osservatore, si acciambella, stringendo pudicamente le gambe e creando intorno a sè una nicchia dove un compagno di avventura è invitato come amante, ad accarezzare le sue forme generose di divinità dell’opulenza e nello stesso tempo di brava ragazza. Niente di più moderno di questo epicureismo alleggerito da ogni totem e tabù vittoriano. Niente di meno contemporaneo, niente di più fedele alla Venere allo specchio di Velazquez o alla Maja desnuda di Goya, di questi ripetuti inni all’innocenza della voluttà. Nei suoi dipinti per Botero ciò che conta veramente è poter gioire dell’essere in vita con buona salute ed opulenta complessione. Il seno della fanciulla, incorniciato da una collana quasi trasparente, deborda senza limiti e senza ritegno, straripando nelle pieghe di un infinito adipe e sembra voler abbracciare tutta l’umanità per chiedere affetto e comprensione. Eric Fischl, pittore statunitense contemporaneo, nato a New York nel 1948, dopo esordi astrattisti, ha proposto, nel solco di un realismo influenzato dall’espressionismo tedesco, dalla tradizione naturalistica americana e dal fotorealismo degli anni Sessanta, grandi tele figurative (scene della vita della middle class suburbana, interni con nudi in primo piano) in cui l’apparente quotidianità della figurazione contrasta con l’alone di ambiguità ed enigmaticità e le inquietanti, voyeristiche allusioni alla sfera sessuale. Ha messo in scena un universo di gesti banali che si manifestano nel bagno e nelle camere da letto, in piscine e nei giardini, come l’autoerotismo legato alla scoperta sessuale dell’adolescente e la tensione psicologica e sessuale che si istaura tra i corpi nudi degli adulti e dei bambini. Una visione profonda degli eventi, tra il volgare e il naturale, che segnano la psiche di tutti, anche dello spettatore che si trova dinnanzi ai suoi quadri: inevitabile voyeur. Nella Scena quotidiana (190), eseguito nel 1994 in collezione privata a New York, l’artista ha fissato sulla tela un momento di vita vissuta raffigurando una donna nuda che, chinata, cerca a terra gli abiti per affrontare un nuovo giorno. Un cono d’ombra attraversa la composizione e fissa l’attenzione dell’osservatore sulle mammelle pendule che danno l’impressione di cadere, anche se un seno che casca rotolando a terra, più che vederlo realmente possiamo soltanto immaginarlo, come due grandi gocce d’acqua dense e compatte che cadano sulla polvere del pavimento e, coagulandosi, formino due deliziose palline con cui giocare all’infinito. Le due mammelle cadono in maniera diseguale e la semeiotica medica ci mette in allarme perchè spesso sono la spia latente di un’infiltrazione neoplastica dei tessuti. Ci auguriamo che nel caso della modella la diversa gravità sia dovuta ad una spiccata asimmetria di volume, rara ma da non escludere. Altre forme di arte Fino ad ora abbiamo documentato l’interpretazione del seno fornita attraverso i secoli da pittori e scultori, ma negli ultimi tempi hanno acquisito sempre più importanza altre forme di rappresentazione, quali il cinema, la fotografia ed il fumetto. Trattarne esaustivamente farebbe debordare pericolosamente il numero delle pagine del libro, per cui ci limiteremo a citare pochi esempi tra i più significativi. Nel campo del cinema partiamo dal seno di Clara Calamai (191), attrice popolarissima tra la fine degli anni’30 e l’inizio degli anni ’50, che fece enorme scalpore quando comparve in topless nella trasposizione cinematografica del dramma di Sam Benelli la Cena delle beffe, diretta da Alessandro Blasetti nel 1941. Altri ruoli che la legano indissolubilmente alla storia del cinema sono senza dubbio quelli da lei sostenuti in Ossessione (1942) di Luchino Visconti, dove sostituì all’ultimo minuto Anna Magnani, in l’Adultera di Duilio Coletti (1946), quando vinse un Nastro d’argento ed infine in Profondo rosso (1975) diretto da Dario Argento. Insuperabile nei panni di donna fatale, complice un erotismo ed una sensualita che bucavano letteralmente lo schermo, seppe interpretare con disinvoltura amanti, adultere e nobildonne di facili costumi, ma bastarono pochi fotogrammi a farla entrare prepotentemente nella storia e nella leggenda del cinema italiano: il primo seno nudo che sciocca gli spettatori ed alimenta dicerie, maldicenze e proteste, che cessarono solo per un diretto intervento del duce, indiscusso esperto di fascino femminile. Clara Calamai divenne l’oggetto del desiderio e fece sognare a lungo gli italiani divenendo un prepotente simbolo dell’erotismo. Per girare la scena incriminata il regista Blasetti sistemò in alto le cineprese e fece sgomberare tutti i membri della troupe. Amedeo Nazzari entrò all’improvviso sulla scena e strappò la camicetta all’attrice distesa sul letto, permettendo al suo seno, alquanto modesto per la verità, di diventare un’icona del sesso ed il simbolo stesso della trasgressione.Tra le polemiche suscitate dall’episodio la più accesa fu quella sollevata da Doris Duranti, la celebre diva dei telefoni bianchi, ben più soda e dotata della Calamai, la quale apparve l’anno successivo anche lei a torace scoperto su una pellicola, ma tenne a sottolineare “che il suo fu il primo seno ripreso all’impiedi ed appariva eretto, come di natura, orgoglioso e senza trucchi, mentre la rivale si era fatta riprendere sdraiata, che non è una differenza da poco”. Ad incrementare la querelle abbiamo reperito la notizia, senza poterla controllare, perchè la pellicola è andata perduta, di un altro seno scoperto prima di quello esibito dalla Calamai, sarebbero le poppe di proprietà di Vittoria Carpi, che pare le abbia esibite nella Corona di ferro, diretto da Blasetti nel 1940. Sul versante internazionale una menzione speciale spetta al seno nero (192) di Josephine Baker, il primo a rompere fragorosamente ogni argine di razzismo, assurdo quando riferito alle più perfette forme mai create. Cantante e ballerina statunitense, naturalizzata francese, coperta unicamente da un gonnellino di banane, mentre balla pazzamente uno scatenato charleston, è una delle immagini più celebri degli anni Venti. Bella da morire, con la sua pelle ebano e con le gambe che hanno turbato il sonno a milioni di uomini, la Venere creola del varietà francese era originaria del Missouri, nel profondo sud degli States, dove i negri erano all’epoca visti col fumo negli occhi. Diverrà un’icona della bellezza universale, ironica e conturbante, travolgente e trasgressiva. Iniziò la carriera nei piccoli teatri di Saint Louis, prima di debuttare a Broadway a sedici anni e poi spiccare il volo per l’Europa, attrazione della compagnia Black Review. Al teatro degli Champs Elysées la sua conturbante bellezza e la sua bravura mandarono in delirio Parigi. Osava ballare in maniera selvaggia e cantare con voce suadente, avvolta in una nuvola di piume e di perle e stupiva il pubblico per la nonchalance con cui esponeva all’ammirazione ed alla venerazione generale i suoi seni acuminati da affilato felino, in grado di colpire a morte il cuore a chicchessia. Seppe miscelare sapientemente il gusto piccante del varietà francese al caldo folklore della musica africana. Fu passionale sul palcoscenico, mentre cadde in un esotismo di maniera quando fece incursione anche sullo schermo. La sua carriera fu lunghissima e negli ultimi anni, nonostante la salute precaria, continuò a girare i teatri di tutto il mondo, ammaliando il pubblico con i suoi indimenticabili refrains, pur di raccogliere fondi per la sua famiglia multicolore di dodici orfanelli adottati. Non si stancava di ripetere: ”Certamente verrà un giorno in cui il colore non sarà che una tonalità della pelle e la religione semplicemente un modo di parlare all’anima”. Fu un corpo da favola, con un cervello pensante ed uno spirito nobile, tre qualità che raramente coesistono nella stessa persona. Tutti vollero applaudirla fino alla fine e tra i tanti riconoscimenti internazionali alla sua filantropica attività giunse anche l’ ambitissima Legion d’Onore. Marilyn Monroe è stata la più famosa attrice nella storia del cinema. Il suo mito, indipendente dal suo talento artistico, pur se notevole, è legato alla sua vita avventurosa, alla sua bellezza solare ed alla sua tragica morte; esso è cresciuto sempre più negli anni, fino a divenire il sogno proibito per milioni di uomini. Ma è soprattutto legato ad una spettacolare fotografia (193) che studenti e camionisti, voyeur e signori in doppiopetto hanno tenuto per decenni attaccata alle pareti della loro camera o, quando non potevano, impressa tenacemente nella mente. Lo scatto era stato eseguito nel 1949 e pagato 50 dollari, in seguito l’immagine fu comprata da Hugh Hefner per il primo numero della rivista Playboy e conquistò una fama planetaria. Marilyn, con le sue curve atomiche maliziosamente esposte e nello stesso tempo parzialmente celate, rappresenterà da allora la bandiera orgogliosa delle donne ed il desiderio represso degli uomini. Su tanto ben di Dio svetta imperiosamente il prodigioso seno dai rosei capezzoli, del quale non è difficile intuire la consistenza, che, come confermò il regista Billy Wilder, che evidentemente lo conosceva bene, era duro più del granito. Il marito affermava anche che il suo cervello somigliasse alla groviera, maldicenza confermata da tante donne brutte ed invidiose, ma Marylin ha dimostrato più volte la sua disarmante sincerità: quando confessò che la sua prima foto nuda la fece perchè aveva fame e che all’inizio della carriera cinematografica si era trovata più volte in ginocchio e non propriamente per pregare. La leggenda di Marilyn si è basata inoltre sull’appeal che emanava dal grande schermo e sulla carta patinata delle più diffuse riviste del tempo (solo nel 1945 comparve su 33 copertine). La sua apparente fragilità e la sua vita tumultuosa, culminata in una morte misteriosa, che ancora fa discutere, ne hanno fatto un sex symbol fuori dal tempo ed un’icona della cultura pop. Ebbe una voce calda che affascinava l’ascoltatore, quando nei suoi film si esibiva come cantante, ma il suo intervento canoro più memorabile fu alla festa di compleanno del presidente Kennedy, di cui si vociferava che fosse l’amante, quando intonò con fare malizioso ed ammiccante Happy birthday, mister president. Ebbe numerosi mariti, alcuni famosi, come il campione di baseball Joe di Maggio, che sposò due volte ed il commediografo Arthur Miller. I suoi film più famosi: Giungla d’asfalto, Eva contro Eva, Niagara e Gli uomini preferiscono le bionde, una interpretazione memorabile, nonostante lei fosse bruna, bionda solo perchè ossigenata. La morte la ghermì ad appena 36 anni, ma il suo corpo statuario vivrà per sempre, conservato gelosamente nella mente e nel cuore di chi la ha ammirata. Nella cinematografia mondiale il seno prorompente per antonomasia è senza ombra di dubbio quello di Sofia Loren. In fondo la sua notorietà internazionale parte da quella spavalda passeggiata da pizzaiola nell’Oro di Napoli, con la camicetta che a stento tratteneva il suo giovane corpo esplosivo ed esuberante: doie cape e criature in libera uscita. E da allora è stata lei l’icona della meridionalità più schietta, anche se a tette nude (194) apparve solo come odalisca nel film Due notti con Cleopatra di Vittorio Metz e Marcello Marchesi, quando si presentava ancora come Sophia Lazzaro e per di più nella versione destinata al pubblico straniero, per cui francesi e tedeschi potettero godere della visione celestiale di quelle invalicabili montagne solcate da una valle ubertosa, mentre gli italiani dovevano accontentarsi di vederla vestita e la differenza non è di poco conto. Da cinquanta anni il seno della Loren, più immaginato che realmente scrutato, ha popolato i sogni di generazioni di aficionados, disposti ad incredibili pazzie. Chi di noi non rinuncerebbe a qualsiasi cosa pur di trasformarsi per un mese nel reggiseno di Sofia? La rara immagine che abbiamo mostrato non compare in alcuna biografia dell’attrice ed invano navighereste tra le diecine di migliaia di siti dedicati a lei sul web per trovare questo o altri scatti proibiti. Di recente la società che gestisce Playboy ha annunciato di essere in possesso di una inedita foto della diva, non si sa quando scattata, mentre nuota nuda in piscina e conta quanto prima di metterla all’asta, con la certezza di raggiungere una cifra record. Agli antipodi del seno debordante ed opulento di cui abbiamo tessuto le lodi, negli ultimi anni è comparso all’orizzonte, sia nel cinema e nella moda che nella vita di ogni giorno, il seno grissino, interpretato da una modella magrissima simbolo di una sessualità cattiva, schiava delle diete ed in preda alla più esaltante anoressia. Una donna sottile e scattante come una pantera dai lunghi artigli dorati e dai seni minuscoli in grado, come si predicava in passato, di essere accolti in una coppa da champagne. Per raggiungere questi nefasti obbiettivi bisogna sottoporsi ad una di quelle diete feroci che gli americani chiamano fasting, fatte di tisane e succhi di pompelmo, con inevitabile corollario di digiuni e depressioni. Anche senza arrivare agli eccessi della mastoplastica riduttiva praticata con dissennata assiduità da schiere sempre più numerose di adolescenti ed attempate signore, desiderose di ridurre fino a superare i limiti della decenza le proprie misure. Il prototipo di questa femminilità diafana e microscopica è stato interpretato da Kate Moss, top model inglese, a lungo testimonial di Calvin Klein, uno sguardo algido rivolto altrove senza traccia di emozioni e con il petto ridotto ai minimi termini, come ben si evince nella foto (195) dove trasparenti fili di collana sono sufficienti a coprire l’esile seno. E sulla stessa falsariga depotenziata di Kate è sintonizzato il seno sfuggente di Erica Creer, che troneggia (196) sulle pagine del calendario Pirelli, antesignano di una moda per guardoni eccellenti che è cresciuta a dismisura nel tempo, fino a giungere ad un numero incalcolabile di calendari pubblicati ogni anno. Per tutti i gusti e per tutte le tasche, costituiscono un termometro attendibile dei gusti anatomici di un pubblico internazionale, il quale tende ad apprezzare in egual misura forme opulente o striminzite, purchè in armonia con il corpo, che deve essere sempre agile e scattante. Fotografare una bella donna nuda è un po’ come rubarle l’anima, fermare l’immagine fugace e poterla ammirare e toccare ogni qual volta desideriamo è fantastico, lasciare un ricordo immutabile al di là del tempo è semplicemente magico. Nel campo della fotografia mi sia concesso presentare uno scatto personale della mia amica Irina (197), incantatrice in egual misura di uomini e di serpenti, in grado di sedurre e di domare anche il più perfido e scivoloso degli esseri viventi. Se la nostra progenitrice Eva avesse avuto anche un briciolo della sua arte, avrebbe saputo resistere alle insidie del perfido animale e l’umanità non sarebbe precipitata dal Paradiso terrestre alla faticosa ed improba vita di ogni giorno. L’uomo non sarebbe stato condannato a guadagnarsi il pane col sudore della fronte, mentre la donna avrebbe partorito senza dolore. La storia come sappiamo è andata diversamente e la maledizione biblica ha avuto il suo corso ineluttabile. Allo stesso tempo fallo e utero, pene e vulva, il serpente è senza dubbio uno dei più antichi archetipi dell’ambivalenza sessuale. Ed è anche l’indiscusso archetipo dell’ambiguità del bene e del male, da quando, nella Genesi, esso appare come il più furbo e perfido tra tutti gli animali, il tentatore di Eva, alla quale riuscì a far credere che il frutto dell’albero della morte le avrebbe fornito la più ampia conoscenza. Sul corpo di Irina si muove con circospezione; si annoda senza stringere attorno al collo, percorre silenzioso ed audace la valle del seno, delimitata da due monumenti alla procace bellezza e si avvia speditamente, attirato da un afrore irresistibile verso l’origine della vita, deciso a penetrarla dolcemente, come dolcemente accarezza, più che cento mani simultanee, l’epidermide vellutata della fanciulla, che osserva divertita i suoi lubrici e serpentini… movimenti. Autore dell’illustrazione (198) Donnine nude, comparsa sulle pagine di Playboy, è Pater Sato, disegnatore giapponese, che per anni ha collaborato ad importanti riviste in Giappone, Europa e Stati Uniti. Le sue creazioni, fascinose ed originali, hanno dato luogo alcune volte a trasposizioni teatrali o cinematografiche, come nell’esempio in esame che ispirò il film di grande successo le Streghe di Eastwick, interpretato da Susan Sarandon, Michelle Pfeiffer e Cher. Queste allegre donnine, raffigurate nell’illustrazione, dedite al bere smodato ed ai piaceri della gola, profonda naturalmente, danzano con malcelata noia e costituiscono una miscellanea di mammelle di varie fogge e dimensioni: dal seno a mela, piatto ed esuberante, segno inequivocabile di animo aperto e cordiale, a quello poco più che puntiforme della ragazza di destra, in grado di entrare agevolmente più che in una aristocratica coppa di champagne in un semplice bicchierino di rosolio, a quello a pera, anche se ancora acerba, della fanciulla di spalle. Una varietà per tutti i gusti e per tutte le occasioni, ispidi e disordinati, casti e verecondi, piccoli ed opulenti, alla disperata ricerca di una poco probabile quadratura dei seni, una dittatura alla quale è follia pensare di potersi sottrarre. Ritagli di raffinatissima carne che si dondolano beatamente, si rimpiccioliscono o crescono a dismisura sull’onda della voluttà e del desiderio. I primi sembrano intonati con gli occhi bruni ed a mandorla della proprietaria, i secondi pendono come fichi freschi dall’albero, ben maturati dal solleone ferragostano, gli ultimi, due gemellini, piccoli ma seducenti, invitano a succhiare, come se empi di un dolce e dissetante nettare che, ingurgitato, sia in grado di infondere coraggio ed energia. Il Seno a strisce concentriche (199) rappresenta un paradosso ottico di irresistibile fascino e riflette l’esuberanza di un decennio di emancipazione femminile, culminato nel 1968, data di realizzazione dell’originale collage, in parte foto ed in parte creazione artistica, intervento attivo di un ignoto pittore dalla fantasia scatenata, il quale, dopo aver trasformato la superba fanciulla in tiro al bersaglio dei nostri più inconfessabili desideri, ha regalato alla modella il suo pennello ed ella, orgogliosa, lo propone in primo piano, introducendone la punta nella bocca socchiusa. Espressione della op art, uno dei tanti movimenti nati in America negli ultimi decenni del secolo scorso, questo seno, che irradia la sua energia in tutte le direzioni, diventa nello stesso tempo un tiro al bersaglio in grado di calamitare sguardi e desideri. Le linee sinuose creano un vortice che innalza il seno fino al delirio, facendolo ruotare vorticosamente e la donna che lo possiede diventa preda di colui che sia in grado di leggere nel labirinto di questo coacervo di arabeschi. Esiste una sperduta regione dell’India dove il tempo si è fermato e dove le fanciulle, quando raggiungono la pubertà, vengono dipinte vivacemente con i seni a strisce rosse rigate di giallo e, completamente nude, vengono incitate a percorrere di corsa i campi, offrendosi al primo uomo che venga attirato da questa inebriante rigatura concentrica multicromatica. Ed una volta conquistati questi seni posseggono un fascino ammaliante che strega per sempre l’uomo che per primo li ha toccati, trasformano il prode guerriero che ha bevuto alla fonte dei suoi capezzoli in un docile schiavo ed ingenerano una danza impazzita con i circoli concentrici che si intrecciano reciprocamente all’infinito. Un incrocio tra fotografia ed arte può essere considerata l’opera, Scultura mammaria (200) di Joel West, giovanissimo artista ex modello, ripresa dall’obiettivo arguto e sprezzante di David La Chapelle, un artista a sua volta, il cui stile è caratterizzato da una innata capacità di forzare i contrasti e di mescolare i linguaggi della pubblicità e del reportage con l’utilizzo di colori saturi ed atmosfere estreme. Le sue immagini sono oniriche, irrazionali, stravaganti, vivaci, erotiche ed estreme, grottesche, assurde eppure dotate di un fascino ammaliante. La bellezza e la perfezione contenute nel gigantesco modello utilizzano un linguaggio basato sulla fusione di memorie surrealiste ed incombenti istanze di arte pop. La parte anatomica rappresentata è fuori da ogni realtà e di dimensioni ridicole ed inverosimili, eppure ci permette di navigare liberamente, supportati dalla fantasia. La nostra memoria va alle sequenze della celebre pellicola di Federico Fellini Amarcord, quando il protagonista, il giovane Titta, che ha perso la madre ed ha visto ricoverare il nonno all’ospizio, attraversa varie peripezie tra le quali l’incontro, a sfondo mega erotico, con la tabaccaia del paese che, abbassata la saracinesca del negozio, gli propone le sue gigantesche mammelle, incutendo un irreparabile terrore castratorio al malcapitato, che anela alle forme gentili ed aggraziate della bella quanto irrangiungibile Gradisca. Oppure ricordiamo l’episodio, dello stesso Fellini, di Boccaccio 70, dove il povero Peppino De Filippo, è ossessionato ad ogni passo del suo percorso cittadino da un mastodontico cartellone pubblicitario di Anita Ekberg, che scandiva decisa lo slogan:”Bevete più latte”. E dopo poco ci riaffiora alla mente il film di Woody Allen degli anni Settanta Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere, nel quale una zizza gigantesca a forma di pallone idrostatico spruzzava senza pietà, a profusione, latte sul malcapitato attore regista, il quale cercava disperatamente di ripararsi senza risultato, a dimostrazione irrefutabile che alla dittatura del seno è vano ribellarsi. Ed infine l’ultima immagine indotta dalla originale opera d’arte, che ci affiora confusa dai meandri più profondi dell’inconscio, è il seno, mostruosamente grande e desiderabile, della nostra maestra elementare, sul quale abbiamo trascorso con lo sguardo intere mattinate della nostra infanzia innocente. Tra i fumetti erotici un posto di assoluto rilievo è occupato da Valentina, la creatura nata dalla penna e dalla fantasia di Guido Crepax. Un personaggio che dalla carta stampata si è trasferito alla televisione e le cui storie hanno eccitato appassionati non solo in Italia, ma anche in Germania, Svizzera e Stati Uniti. Secondo la sua carta d’identità Valentina nasce il 25 dicembre del 1942 e fisicamente prende ispirazione dall’attrice americana Louise Brooks, indiscussa icona della donna fatale della Hollywood degli anni Venti. E’ una donna moderna, emancipata, che vive il rapporto uomo donna in maniera paritaria ed è sfacciatamente esibizionista. Giovane, dal corpo fragile e snello, sofisticato e sensuale, ama mostrarsi nuda e per i suoi ammiratori voyeurs in stivaletti neri, corsetto, calze a rete e reggicalze di pizzo, ma con il seno costantemente in libertà, in grado di solleticare gli istinti più bassi ed i desideri più inconfessabili (201). La sua prima apparizione in una storia a fumetti: la Curva di Lesmo e tra le fanciulle partorite da Crepax è la più sfacciatamente erotomane, anche se le sue colleghe sono le trionfanti interpreti di alcuni classici della letteratura erotica quali Emmanuelle, Justine e Histoire d’O. Rappresenta il trionfo e la glorificazione del feticismo tra legacci, tacchi a spillo, fruste e dominazioni. Per lei si gettano in ginocchio vogliosi ufficiali prussiani, pugnaci cavalieri in divisa da ussari e signorotti seicenteschi. E tutti non hanno che un desiderio: spogliarla, legarla, frustarla e soprattutto essere frustati. E lei tra questo ribollire di passioni lussuriose è l’indiscussa regina. Di professione fa la fotografa, un’attività che la porta a vivere in una labile linea di confine tra realtà, sogno e ricordo. Le sue avventure trapassano dalla staticità della carta stampata e danno luogo alle più impensabili fantasie, grazie alla straordinaria abilità della matita cinepresa di Crepax, il quale scava e rende palpabile anche il minimo dettaglio: un battito di ciglia, il dischiudersi delle labbra, il vigoroso vibrare della punta di un capezzolo. Il fascino perverso del suo corpo mi colpì, giovane medico e mi accompagnò per oltre trenta anni attraverso le copertine, circa 200, della rivista scientifica Tempo medico ed attraverso le avvincenti puntate mensili del quiz medico Clinicocommedia, dallasoluzione resa ancora più ardua per la visione delle procaci forme dell’improbabile dottoressa. Le sue avventure erano, pur nella dimensione onirica, lo specchio di una certa società italiana degli anni Sessanta e Settanta. Si muoveva tra i membri di una borghesia radical chic, che acquistava l’Espresso ed si infervorava per i reportage scandalistici di Camilla Cederna, che acquistava (senza leggere) i libri di Adorno e Trotzkij, che ascoltava il jazz caldo ed i concerti del virtuoso violoncellista Pablo Casals; beveva whisky on the rocks, indossava abiti di Paco Rabanne e, se le gambe e la decenza lo permettevano, indossava minigonne pop di Mary Quant. Affidava la pettinatura ai fratelli Vergottini e si vantava di non vedere mai la televisione e di non conoscere nemmeno per nome Mike Bongiorno. In questo mondo di vip, veri o presunti, Valentina si muoveva con disinvoltura, con il suo caschetto di capelli neri all’ultima moda, bella ed irresistibile, sprizzante vitalità da tutti i pori, con gambe affusolate ed un sedere da far perdere la testa, ma soprattutto con un seno da schianto, eretto e coraggioso, in grado di affrontare e superare ogni ostacolo. Le vignette satiriche hanno incontrato un grande successo di pubblico, in particolare durante gli anni delle dittature europee del Novecento, ma la vena dei disegnatori si è soltanto affievolita con l’avvento della democrazia e le prime pagine dei quotidiani ospitano spesso una vignetta per semplificare, sorridendo, l’avvenimento principale del giorno. Il costume e la politica sono gli argomenti più gettonati e questa divertente Illustrazione (202) degli anni Ottanta che proponiamo, con lo straripante Spadolini, notoriamente zizzuto ed ipogenitalico, che allatta le orde dei suoi famelici figliocci, ci permette di accennare a due tematiche riguardanti il seno: la comparsa del latte in una donna fuori della gravidanza, evento infrequente, ma da tempo noto alla medicina ed il latte di padre, circostanza prodigiosa ai limiti del miracoloso. Si racconta di numerose fanciulle che in passato, senza alcun contatto con i maschi, ma soltando sognandoli ad occhi aperti, all’improvviso si siano sentite più pesanti, più costipate e con i seni affetti da un solletico silenzioso, felici e voluttuosi, pregni di una sensazione nuova ed imbarazzante. E scoprendoli, incuriosite, vederli gonfi a tal punto che dal capezzolo timidamente faceva capolino una goccia di latte bianco e denso. Seni vergini e desiderosi, resi felici da un latte metafisico, ma che più di una volta sono finiti sul rogo assieme alla proprietaria, sospettata di un inesistente infanticidio. La scienza medica ha da tempo chiarito le cause patologiche del fenomeno: una banale iperprolattinemia o, nei casi gravi, un tumore dell’ipotalamo. Più complessa la questione del latte di padre. In tutte le culture ed in tutte le aree geografiche vi sono state figure mitiche di uomini forniti di abbondante lattazione. Nella nostra religione si venera san Mamante, un culto particolarmente diffuso nel territorio di Belluno, dal quale deriva anche il termine dialettale di mammana, in uso in molte regioni, per indicare la levatrice. Il santo uomo, secondo la leggenda, stava percorrendo un sentiero, quando, da un cespuglio, sentì il vagito di un neonato abbandonato, cercò di calmarlo prendendolo in grembo, ma il fantolino non mangiava da tempo ed urlava come un ossesso. Il povero santo non sapeva a che santo rivolgersi, per cui decise di pregare il Signore ed ecco che, per incanto, il suo petto si gonfiò ed avvicinatolo al bambino ne scaturì copiosissimo latte. Il mito di san Mamante secondo alcuni etnologi deriverebbe da una trasformazione del culto della dea Cibele, ma poco importa, mentre la constatazione che il mito non sia infrequente induce a cercarne una spiegazione. Esistono disturbi quali la ginecomastia che producono un cospicuo ingrossamento della rudimentale mammella maschile. La patologia è provocata da un aumento del tasso nel sangue dell’ormone estrogeno, normalmente presente in modiche quantità, perchè disattivato da un enzima presente nel fegato. Basta una grave affezione epatica, quale la cirrosi per inattivarlo ed ecco manifestarsi la ginecomastia. Per far sì che la mammella maschile secerna latte si deve però affiancare una seconda malattia, che colpisca una zona del cervello deputata alla produzione della prolattina: un tumore dell’ipotalamo e l’uomo padre è pronto a sostituire la donna nella nobile funzione. Casi del genere, rari ma non eccezionali, saranno capitati dappertutto, eccitando la fantasia popolare e dando luogo a miti e leggende, in considerazione dell’alto valore nutriente del latte, l’alimento della vita, soprattutto in popolazioni dove unire il pranzo con la cena era impresa ardua ai limiti dell’impossibile. Dal fumetto e dalla satira alle stampe giapponesi con un salto a ritroso di quasi due secoli fino al 1814, data di esecuzione del Sogno della moglie del pescatore (203), un’illustrazione del libro I giovani pini del giapponese Katsushika Hokusai, il massimo interprete dell’incisione nipponica e l’artista asiatico più conosciuto in occidente. Ad Edo, la futura Tokyo, in un clima sociale estremamente rigido si forma una nuova classe, un incrocio tra plebe urbana e piccola borghesia, che sceglie una propria arte, Ukiyo-e, letteralmente dipinto del mondo fluttuante, subalterna a quella ufficiale, per esprimere la ricerca di piaceri che, per quanto fuggevoli ed effimeri, rendono godibile e sopportabile la vita. Di questa arte diventano protagoniste giovani donne, di bell’aspetto, eleganti e vestite alla moda, ma anche riprese nella loro più recondita intimità. Sono estremamente sensuali e somigliano alle raffinate prostitute per le quali Edo era famosa. Hokusai in trentamila disegni parlerà di paesaggi, di uomini ma, soprattutto di sesso. Il suo ductus è elegante e perfetto e le sue stampe scintillano di colore puro, il contrario di ciò che per secoli aveva propugnato il tonalismo europeo. Il passaggio di informazioni tra le culture orientali ed europea costituirà l’atto di nascita dell’arte contemporanea occidentale: Van Gogh rimarrà estasiato dal colore puro e tangibile sarà l’influsso anche su Monet e Whistler. Nel Sogno della moglie del pescatore un corpo nudo di donna disteso sugli scogli è in preda all’acme del piacere. Un’immensa piovra dalle pupille spaventose, simili a neri quarti di luna, le sta suggendo imperiosamente le parti intime e con alcuni tentacoli le titilla ritmicamente un capezzolo, mentre un’altra, più piccola, la bacia avidamente. La scena sembra un incubo, ma i polpi sono abili e gli orgasmi si accavallano impetuosi. La composizione sottende un messaggio alquanto esplicito, senza necessità di interpretare la selva di ideogrammi giapponesi, intraducibili per gli stessi nipponici, sia perché la lingua è arcaica ed anche perché gli scritti sulla parte sinistra sono stati cancellati per il loro contenuto sconveniente. L’innocente mondo delle cartoline postali, ha sempre riservato una nicchia per amanti della pruderie, come si può evincere sfogliando i numerosi e forniti cataloghi specialistici o passeggiando tra le bancarelle dei mercatini delle pulci domenicali. In concomitanza col nascere della fotografia, intorno alla metà del XIX secolo, appaiono le prime cartoline osè, in vendita, le più audaci nei postriboli, le più innocenti nelle tabaccherie. Sono da collezionare e far girare di nascosto tra uomini, se qualcuno si azzardava a spedirla con un francobollo, se la vedeva sequestrata dalla censura bacchettona dell’epoca, oppure trafugata da un postino arrapato. Una sottocategoria delle cartoline erotiche era costituita, fino pochi anni fa, dai calendarietti profumati, regalati a Natale dai barbieri ai clienti più generosi con le mance, raccolti con un elegante nastrino. Erano una piccola miscellanea di immagini cult popolate da procaci e scollacciate ragazze, disinibite quel tanto che basta. La qualità fotografica di queste impertinenti cartoline era in genere modesta ed alquanto omogenea, facevano colpo quelle recuperate sul mercato parigino e chi di ritorno da un viaggio oltralpe ne poteva sfoggiare qualcuna pepata con gli amici faceva un figurone. Ne segnaliamo due tra la marea di esemplari che abbiamo potuto esaminare dal barone Maffettone, raffinato collezionista da sempre, ex (da tempo) viveur e mio vecchio compagno alle scuole elementari. E ricordo che da bambino l’amico Raffaele, mentre noi raccoglievamo figurine di calciatori e ciclisti, accaparrava orgoglioso immagini proibite, avendo ereditato dal padre, celebre tombeur de femmes, la rigogliosa passione di sbirciare i lati più reconditi dell’anatomia femminile. Partiamo da una chicca del 1852, che ha avuto l’onore di essere stata esposta quest’anno a Dusseldorf, nell’apposita sezione, alla memorabile rassegna su 100.000 anni di sesso. Essa mostra Due allegre donnine (204), completamente nude, ad eccezione di scarpe e calzettoni variopinti, l’una che cavalca l’altra. La montante è intenta a sorseggiare da una bottiglia con evidente soddisfazione, pronta ad imboccare ben altro, mentre la compagna, divertita, sembra attendere il suo turno per salire in groppa, trasformandosi da puledra in cavallerizza. L’atmosfera è più comica che erotica ed i corpi delle non più giovani signorine…sono alquanto sfasciati e consunti dall’assidua pratica del loro lavoro dalle antiche tradizioni, ma i seni, ampi e generosi, non sembrano in disarmo e nelle diverse positure danno l’impressione di poter sostenere ancora, con reciproco godimento, molteplici e defatiganti battaglie d’amore. La seconda cartolina raffigura un bocconcino delizioso ed è stata scattata negli anni Trenta in una casa chiusa di Napoli, sita in via Santa Lucia, una delle più eleganti della città, frequentata da gerarchi e podestà, nobili e ricchi sfondati. Concettina(205), questo il nome, forse di fantasia, della ragazza, indicato sulla cartolina, dimostra poco più di 15 anni, un’età vietata all’epoca per praticare il meretricio ed i postriboli erano molto severi nel rispettare i regolamenti, ma si faceva un’eccezione per qualche cliente importante, che desiderava carne fresca ed era disposto a pagare ben più delle normali tariffe. Per queste richieste particolari venivano persino reclutate delle vergini che, una volta battezzate, proseguivano poi la loro carriera cambiando ogni 7 giorni lupanare e questo incessante tour de force durava vari anni prima che ritmi sovraumani e malattie non rendessero la prostituta un relitto umano. Da questo atroce destino la nostra fanciulla è ben lontana. Le sue forme ben tornite mostrano la freschezza dell’età e la consisenza tufacea della giovinetta. Il seno, sodo e di forma perfetta è un invito irresistibile alla voluttà e la linea delicata del pancino richiama a viva voce quello immortale della Venere di Urbino, mentre i capelli, folti e neri come il carbone fanno da corona ad uno sguardo triste e malinconico, presago del triste destino che attende il fiore della sua innocenza. Le vignette umoristiche occupano uno spazio considerevole nella pubblicistica contemporanea e sono schiere gli appassionati lettori di riviste umoristiche, sia in Europa che negli Stati Uniti. La prima illustrazione che presentiamo, realizzata negli anni Settanta da Bkilbian, un grafico americano, raffigura una gigantesca cow boy, anzi Cow girl (206), di straripanti dimensioni, completamente nuda, ad eccezione di stivali da cavallerizza, guanti e cappellaccio tipico del Far West, la quale, ai bordi di un’autostrada, ha collocato un chiosco per la vendita di hamburgers e patatine situato nelle pieghe delle sue cosce poderose, ai limiti del fatale ingresso. Porta sul ventre batraciano una scritta perentoria mangiate e non si stanca di gridare a squarciagola. “All I sell is cheseburghers, but I sell a lot of cheseburgers”. Le mammelle della bionda fanciulla sono enormi ed inquietanti, dotate di appuntiti e protrudenti capezzoli, sono il frutto esasperato di una fantasia megalomaniaca. Non esistono bilance che possano pesarle, sono severamente ammonitrici e sembrano che vogliano invitare alla parsimonia culinaria, anche se il dito della donna indica senza ritegno un luogo di bisbocce alimentari. L’immagine di questa ragazzotta, straripante più che debordante, mette a nudo una paura repressa di tanti americani, costretti all’obesità più degradante, vittime di una sferzante pubblicità che, pur di vendere, induce i consumatori ad ingozzarsi oltre ogni limite con alimenti ipercolesterolemici e dislipidemizzanti. Fred Stonehouse, artista americano vivente, trasfonde nelle sue opere le immagini mentali della sua infanzia derivate dai sogni repressi della sua educazione cattolica. Esse sono pervase da un fascino terrificante ed oscuro e non tutti i simbolismi sottesi vengono facilmente recepiti dagli osservatori. Egli abbraccia il lato oscuro della vita e questo si palesa sotto forma di figure, che sopportano vari gradi di tormento fisico e mentale. Alcune immagini evocano la potenza creativa di Bosch ed infatti Stonehouse ha preso ispirazione da incisioni alchemiche del XVII secolo per creare la sua personale mitologia, un intricato coacervo di alchimia, ricordi e sogni. Oggi gode di un grande successo nelle gallerie americane, dove ha venduto suoi pezzi a personaggi famosi come Madonna, ma ama anche esporre e far conoscere la sua produzione in Italia. Eden (207) è il titolo dello spiritoso lavoro di Stonehouse, realizzato nel 1997 e pubblicato su Playboy in occasione di un anniversario della rivista. L’illustrazione è corredata dall’inchiesta del giornalista Dick Lochte, il quale interrogò centinaia di uomini e donne chiedendo cosa desiderassero la sera quando si coricavano: “Dormire” fu la risposta più frequente tra le signore, “Carne di porco” l’unico desiderio degli uomini di tutte le età. In un cielo azzurro una miriade di peni eretti orgogliosamente sta per atterrare, grazie ad un paracadute scrotale, su un verde corpo di donna, nel quale svettano imperiosamente due seni rigogliosi, pronti a reggere l’urto dell’impatto e ad accogliere festosi il dono proveniente dall’alto. Degli omini assisi alla base di questi originali organi maschili, si godono beati la scena e sorridono sornioni perchè conoscono il segreto di questo poderoso schieramento di forze: l’effetto del Viagra, la pillola della felicità per gli uomini, a cui risveglia i sensi sopiti e per le donne, interessati bersagli di queste cariche selvagge. L’immagine dell’artista può rappresentare un sogno per entrambi i sessi, trafiggere od essere trafitte, sono infatti due facce della stessa medaglia.
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