Napoli: La napoletanità nella storia dell’arte: Il misterioso mondo dei femminielli.
Nel variegato universo omosessuale, ancora mal classificato sia scientificamente che culturalmente, il pianeta costituito dai femminielli napoletani occupa un’isola privilegiata, ma eccezionalmente è stato rappresentato nell’arte. Solo dopo estenuanti ricerche sono riuscito infatti a reperire un dipinto di un ignoto artista attivo sul finir del Settecento che ci testimonia di un Ballo degli Affeminati (fig. 1) in ambiente contadino.
Napoli nella sua lunga storia, più volte millenaria, non ha conosciuto né il ghetto né l’Inquisizione, perché il carattere peculiare che ci contraddistingue da sempre è la tolleranza, che oggi, pur tra tante pressanti emergenze, ci fa progettare a Ponticelli una grande moschea e che in futuro ci permetterà certamente di rappresentare un ideale laboratorio sperimentale di convivenza tra popoli eterogenei e culture diverse. Il napoletano, come dimostrano recenti statistiche, non vede di buon occhio l’omosessuale più o meno dichiarato, quello politically correct, che oggi, altrove, va tanto di moda ed è apparentemente accettato da una società ipocritamente buonista. Ma da noi il femminiello può vivere quasi sempre, soprattutto nei quartieri popolari, in una atmosfera accogliente, segnata dal consenso e dal buonumore. Nato in uno squallido basso, privo di aria e di luce, in una famiglia in cui la promiscuità è la regola, e dove i figli, tanti, dormono tutti assieme in un unico letto, il femminiello trova il pabulum ideale per sviluppare le sue particolari tendenze; è sempre l’ultimo dei figli maschi, cocco di mamma, al cui modello di dolcezza femminile tende spontaneamente, decidendo, ad un certo momento, senza essere incalzato da cause organiche o costituzionali, di appartenere: di essere donna!Nei quartieri popolari è raro che questa decisione venga giudicata una disgrazia, la famiglia non pensa nemmeno lontanamente di allontanarlo, perché sa bene che anche la società del vicolo lo accetterà senza problemi, anzi poco alla volta lo utilizzerà bonariamente come un factotum buono per mille piccoli servizi, dall’aiuto nel fare la spesa al rammendo degli abiti, mentre nessuna mamma avrà timore di affidargli i suoi bambini, anche piccoli, se dovrà allontanarsi per qualche ora dal basso per un’improvvisa incombenza. Il femminiello gode quindi di una bonaria tolleranza in tutti i quartieri poveri della città, dove collabora attivamente all’arcaica economia del vicolo e dove, per la cultura popolare, non è mai un deviato, ma al massimo uno stravagante, che ama travestirsi ed imbellettarsi come una donna, assumere movenze e tonalità vocali caricaturali, amplificate da una gestualità quanto mai espressiva. Il popolino lo accetta volentieri e lo utilizza frequentemente come valvola di sfogo di malumori e aspettative insoddisfatte, scaricandogli addosso, senza malizia, una valanga di improperi in un cordiale quanto irripetibile turpiloquio, condito di frasi onomatopeiche ad effetto, comunque senza mai isterismi o inutili intenzioni moralistiche. Volgarmente è chiamato ricchione dal popolino, che ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all’inizio del Cinquecento, nel nostro dialetto la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno distintivo. Naturalmente personaggi dal sesso mascherato erano già presenti presso di noi da migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le dovute trasformazioni. Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche pratiche appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se difficilmente visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima riservatezza, è costituito dalla cosiddetta figliata d’’e femminielli. Essa non è altro che un rituale derivante dall’antico rito della fecondità, praticato per secoli nella nostra città. La figliata si svolge segretamente alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata descritta accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro” La pelle” e dalla regista Cavani nell’omonimo film. Questa originale iniziazione ad una femminilità particolare prevedeva un utilizzo di segrete conoscenze alchemiche, oggi perdute ed avveniva durante periodici festeggiamenti per l’avvenuta nascita del “maschio-femmina”, dagli iniziati chiamata “Rebis”, res + bis, cosa doppia. Il rituale, descritto nella “Napoli esoterica” di Buonoconto, richiedeva la presenza di un ermafrodito, l’unica creatura che contenesse i due elementi in cui è suddivisa tutta la natura. I greci, da cui discendiamo, ritenevano divino l’ermafrodito, perché figlio della bellezza (Afrodite) e della forza(Ermes).
Naturalmente nel tempo la purezza ideale dell’ermafrodito alchemico si è in parte smarrita, sostituita dalla più materiale ambiguità del femminiello, ma l’antica memoria del rito non è andata del tutto smarrita e conserva immutata ancora oggi la forte carica simbolica, che suggestiona a tal punto alcuni soggetti, da fargli provare le stesse emozioni ed i lancinanti dolori del parto. Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio ed il momento del parto. Alcuni soggetti si immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con un’evidenza sconcertante, dall’accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. Durante le doglie le parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie mortuarie, caratterizzato da una lamentazione ritmica, scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro. Nell’ acme della figliata, il femminiello simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a forma di fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata) accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita nella loro ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e babà. A questi riti antichi e dimenticati si ricollega la credenza che il femminiello porti fortuna, sia portatore di una carica di magico, stando al limite del diverso, in condizione simbolica di ermafroditismo. Questo è il motivo per cui egli è delegato a distribuire parte della sua fortuna agli altri nelle riffe, dove si mettono in palio dei regali in natura, legati all’estrazione dei numeri del lotto. In genere di lunedì, giorno dedicato tradizionalmente al culto dei morti, avvengono, in vari punti della città, queste originali tombolate, accompagnate ad ogni numero estratto dalla spiegazione dei significati reconditi espressi nella “Smorfia”. La più famosa estrazione avviene ancora oggi periodicamente nella chiesa di Santa Maria alla Sanità, conosciuta dal popolino come Monacone, all’uscita delle sottostanti catacombe di San Gaudioso. Il rituale è stato magistralmente descritto da Roberto De Simone nella “ Gatta cenerentola”. I femminielli sono spesso ignoranti, a volte analfabeti, per la precocità della loro scelta e per la scarsa accoglienza da parte della scuola, che non gradisce la loro presenza nelle aule, al fianco di coetanei, nei quali i processi di identificazione sessuale sono ancora in via di definizione. A tredici anni sono già introdotti a pieno titolo nella cerchia dei travestiti ed hanno ricevuto da parte del quartiere il consenso sociale che permette loro di identificarsi in una comunità riconosciuta, che ha un solo nemico giurato: il mondo delle prostitute, gelose del loro antico mestiere e giustamente timorose di perdere clientela. Di giorno il femminiello fa vivere al quartiere momenti di gustosa ilarità, quando va a fare la spesa o semplicemente passeggia guardandosi intorno. Truccati pesantemente soprattutto alle labbra, indossano camicette scollate e pantaloni attillatissimi, che a fatica nascondono una dimenticata, ma sempre imbarazzante appendice sessuale. Nonostante la cultura modesta, hanno spirito mordace, senso del ridicolo e la battuta sempre pronta. Raggiungono il massimo della teatralità dal verdummaro, quando palpeggiano e scelgono le zucchine più lunghe e più dure o si beano accarezzando i meloni più tondi. Quando entrano in un negozio il divertimento è assicurato, vengono accolti con piacere dagli astanti e qualche ragazzo impertinente li sfruculea, canticchiando qualcuno dei motivi dedicati a loro dai neomelodici o la celebre canzone di Pino Daniele, che racconta la storia di un travestito di nome Teresa. Non solo i compositori di canzonette hanno dedicato la loro attenzione al mondo dei travestiti, finanche un celebre commediografo, come Patroni Griffi , ha composto un lavoro teatrale “Persone naturali e strafottenti” e poi un romanzo “Scende giù per Toledo”, il cui protagonista, Rosalinda Sprint, un travestito, rappresenta la più efficace metafora di una città, costretta dai ritmi incessanti imposti dalla modernità, a vivere in uno stato permanente di indeterminatezza. Rosalinda è rappresentata come pura fisicità, ostentata e sofferente, i suoi monologhi, pur nella loro stupidità, posseggono una carica di trasgressione e teatralità, derivata da una perentorietà biologica prorompente che non ammette ammiccamenti né compromessi con la cultura dominante. Anche Attilio Veraldi, acuto indagatore dell’odierno disordine napoletano, ha costellato di oscuri travestiti le intricate trame dei suoi noir. E lo stesso fanno Michele Serio nel suo romanzo granguignolesco “Nero metropolitano” e Andrej Longo nel suo “Adelante”. Fino agli anni Settanta indossare abiti da donna era per un uomo vietato dalla legge, ad eccezione dei giorni di Carnevale, e le forze dell’ordine potevano comminare multe salate ai contravventori. Una sentenza, accolta poi da tutta la giurisprudenza successiva, stabilì che i travestimenti non erano più reato e da allora, tra lo stupore generale, il passeggio dei femminielli, in precedenza confinato prevalentemente nei vicoli dei quartieri spagnoli, è dilagato in pieno centro cittadino, con l’incessante ancheggiare di silfidi dalle spalle muscolose e dai seni siliconati prorompenti, a stento tenuti a bada da scollature vertiginose, dalle cosce monumentali generosamente esposte in minigonne mozzafiato. Esseri indefinibili, troppo belli per essere donne, che tradiscono il loro stato ambiguo per l’altezza eccessiva e per il profumo pestilenziale. Il fenomeno, come abbiamo visto, non era nuovo, nuovo era soltanto lo scenario, che abbracciava oramai tutta la città. In passato, come apprendiamo dalla “Storia della prostituzione” del Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall’Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare… A lungo questa zona fu l’Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di Sant’Antonio Abbate. Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell’area vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine,in un editto emanato nel 1781, l’Imbrecciata fu riconosciuta come l’unico quartiere dove era ammesso il meretricio. Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d’accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte. Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri. Nell’ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l’appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri. A questa strada malfamata dedicò un intero capitolo Abele De Blasio, medico e scrittore, autore di un ancora letto e consultato “Nel paese della camorra”. Un’attenzione resa obbligatoria nel discettare di onorata società perché, già dal Settecento, tutto il quartiere era caduto sotto il controllo della malavita organizzata. Lo studioso distingue due categorie di omosessuali: i passivi, che definisce ricchioni e gli attivi, chiamati senza perifrasi uomini di merda. La camorra, una struttura verticistica a forte impronta maschilista, ammetteva tra le proprie fila soltanto gli omosessuali attivi, un uomo di merda poteva così essere anche un uomo d’onore, un ricchione assolutamente no. Come abbiamo visto sotto la dominazione spagnola, impregnata di un cattolicesimo rigoroso e perbenista, gli omosessuali erano ghettizzati e tenuti sotto stretta osservazione. Non sappiamo quanti fossero, ma sappiamo che, se colti in flagranza, venivano puniti. Il 17 febbraio 1504 Ferdinando III, detto il cattolico, promulgò una legge che prevedeva pene severe non solo per gli omosessuali, ma anche per chiunque si fosse abbandonato ad atti di sodomia. Ad aumentare la severità delle sanzioni ci pensò poi Filippo II, il quale, il 28 luglio 1571, fece approvare una legge, che puniva addirittura i baroni, se gli stessi, nell’amministrare giustizia nei loro possedimenti, si fossero dimostrati indulgenti verso i cultori della via aborale. Soltanto nell’Ottocento,dopo l’Unità, il clima divenne più liberale e Napoli da capitale di un regno divenne, per anni, capitale dell’omosessualità europea,con una prostituzione maschile in grado di soddisfare i desideri inconfessabili di ricchi viaggiatori stranieri provenienti dai quattro angoli del globo, alcuni dei quali celebri artisti e letterati. Dopo aver esaminato il passato, uno sguardo ai nostri giorni. La diffusione capillare della droga, anche se giunta in ritardo nella nostra città, perché ad essa si opponevano famosi camorristi, come lo stesso Cutolo, ha travolto equilibri secolari ed anche la comunità dei femminielli ne ha risentito vistosamente. La peste del XXI secolo, l’AIDS, ha cominciato a dilagare, riducendo a larve e fantasmi vaganti tanti omosessuali, costretti a diventare miseramente posteggiatori abusivi o mendicanti. I vicoli dei quartieri spagnoli, dopo il sisma del 1980, sono stati progressivamente occupati da extracomunitari, dalla cultura lontanissima dalla nostra, per cui è scomparso quell’ambiente familiare del vicolo, con la sua economia ed i suoi rapporti interpersonali molto stretti, quasi maniacali. La vita quotidiana nelle stradine sopra via Toledo era scandita da un senso di socializzazione e di appartenenza fortissimo, ancor più stretto per chi viveva nella stessa strada. Il senso della vita comunitaria tra il popolino si è affievolito lentamente dal dopoguerra in poi, per deteriorarsi maggiormente con l’arrivo di cingalesi e capoverdiani. Un dato eminentemente urbano, non derivato dalla civiltà contadina, che ha caratterizzato per secoli i nostri vicoli e che oggi è al capolinea. Scomparso il proprio territorio protetto i femminielli si trovano oggi alla deriva senza bussola e senza consenso sociale. Devono combattere con i viados brasiliani, importati massicciamente dalla malavita, portatori di una sottocultura diversa, legata unicamente al moloch dei nostri giorni infelici: il denaro. Cambieranno, scompariranno, come sono scomparse le nostre puttane, sostituite egregiamente da albanesi e nigeriane? Sembra sia in atto una vera e propria mutazione cromosomica. In ogni caso i femminielli di domani saranno diversi da quella specie, che ha allignato per 25 secoli all’ombra del Vesuvio, costituendo una caratteristica, nel bene e nel male, della nostra amata città.
|