Napoli: La napoletanità nella storia dell’arte: il pazzariello come sinonimo di saggezza. |
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Scritto da Achille Della Ragione | |||
Mercoledì 17 Novembre 2010 21:54 | |||
Napoli: La napoletanità nella storia dell’arte: il pazzariello come sinonimo di saggezza. Una figura unica nel panorama folcloristico napoletano è quella del pazzariello, oggi quasi scomparsa, un simbolo di quella saggia follia di origine bacchica, proveniente dal nostro più lontano passato, che per secoli ha avuto una veste ufficiale in questo simpatico personaggio, reso immortale dalla leggendaria interpretazione datagli da Totò, che pubblicizzava prodotti e taverne, vestito di carta colorata, in feluca, spadino ed alla testa di una sgangherata orchestrina di tamburi, pifferi, trombe e clarini. Egli informava il popolino dell’arrivo di botti di vino novello nelle osterie tra mille, lazzi, fischi, capriole e filastrocche, interrotte da entusiastici battimani della plebe, accorsa ad ascoltarlo nei quartieri popolari dove abita l’anima immortale della città, la sua vitalità ed il suo spirito.Stranamente, ad eccezione di Viviani, nessuno dei grandi scrittori partenopei ricorda la sua figura, invano compulseremo il Paese di Cuccagna di Matilde Serao, le poesie o le canzoni di Salvatore Di Giacomo, di Ferdinando Russo, di Rocco Galdieri, di Murolo, Bovio o Nicolardi, numi tutelari e custodi della più verace napoletanità. Una incomprensibile dimenticanza di questa genuina espressione della più sana follia dei napoletani.Molti, oltre a quello impersonato magistralmente dal Principe del sorriso, ricordano il pazzariello del film i Guappi di Nicola Squitieri. Io personalmente rammento, a Salvator Rosa, dove abitavo da bambino, un simpatico pazzariello, dagli abiti variopinti quanto sdruciti, che pazzo lo era davvero ed amava passeggiare, claudicante, anche fuori servizio nelle sue vesti sgargianti, snocciolando frasi prive di senso, intervallate da motti ed aforismi, recitati a memoria senza che nessuno dei passanti ne capisse l’arcano significato. Fino a quando, alcuni benpensanti lo fecero richiudere al manicomio di Capodichino, dove finì i suoi giorni, in quella grandiosa e triste prigione dalle invalicabili mura gialle, che i napoletani chiamavano affettuosamente Pazzaria e dove secondo alcuni critici lavorava uno psichiatra dal quale prese ispirazione Edoardo Scarpetta per delineare la figura del protagonista della sua commedia ‘O miedeco d’’e pazze, per il resto della trama ispirata alla farsa parigina Pensione Chottle.L’unico che riuscì ad evadere da quel luogo di pena fu Vincenzo Gemito, il celebre artista, uscito di senno per un affare di corna, che aggravò i suoi latenti disturbi nervosi provocati da una sifilide allo stadio terziario. Egli era un folle lucido dotato di forza prodigiosa, in grado di piegare i metalli con le dita e di domare bestie feroci. Una notte evase spezzando le sbarre e saltando seminudo quelle mura infinite, per chiudersi a casa sua in una stanza dalla quale non uscì più per oltre venti anni, fino a quando Mussolini non decise di nominarlo Accademico d’Italia e di premiarlo con un milione come segno di riconoscenza ad un “genio nazionale”. Alla figura del pazzariello, in maniera forse arbitraria, vorremmo affiancare quella del mastrogiorgio, il quale era il custode degli alienati mentali, un infermiere specializzato che nasce a Napoli, dove presso l’ospedale degli Incurabili esisteva uno dei primi reparti del mondo dedicato alla cura di questi particolari malati.I pazzi erano curati ed assistiti con grande amore, anche se la terapia dei loro disturbi non era, come non lo è ancora oggi, risolutiva. Essi venivano confortati ed utilizzati per umili mansioni, come distribuire il cibo ai ricoverati per altre malattie e girare la ruota per tirare l’acqua dai pozzi. Queste piccole attività manuali erano ritenute terapeutiche alla pari dell’ascolto di una buona musica, un’idea originale che precorre di secoli la moderna musicoterapia. Si applicava inoltre un regime dietetico iperproteico, che prevedeva la somministrazione di numerose uova, detto e cient’ova.I matti erano divisi in categorie per ognuna delle quali cambiava l’approccio terapeutico: per i più violenti si dava da ingurgitare sangue di asino, per i malinconici infusi disgustosi e decotti aromatici, per i tonti frizioni alla testa con latte di donna misto a sedano. Naturalmente con queste terapie bisognava aspettarsi un intervento divino per ottenere un risultato positivo, come ci ammonisce il celebre dipinto di Stanzione: Guarigione dell’ossessa, conservato nella sagrestia della Cappella del Tesoro.Purtroppo due rovinosi incendi, nel 1795 e nel 1822, hanno distrutto completamente gli archivi dell’ospedale, privandoci di una capitolo importante della storia della sanità napoletana e precludendoci ogni possibilità di conoscere realmente il tipo di cura che veniva prestato ai folli ivi ricoverati, però sappiamo, attraverso altre fonti della curiosa abitudine, durata ininterrottamente dal 1519 al 1734, di concedere a questi malati nei giorni di Carnevale di poter uscire, sorvegliati a vista dai mastrogiorgi e di poter irrompere per le strade, dando sfogo alle loro energie represse e addirittura poter ballare nel palazzo del viceré, motteggiando le guardie con lazzi volgari e fragorose pernacchie.Una liberalità ad orologeria in linea con il famigerato buonismo e la proverbiale permissività dei napoletani.
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Ultimo aggiornamento Domenica 07 Ottobre 2012 11:30 |