Napoli: L’ Anonimo fracanzaniano finalmente svela
A lungo, a margine degli studi su Francesco, si è creata una figura dai contorni indefiniti denominata Anonimo fracanzaniano, nella quale confluivano dipinti di difficile attribuzione, a partire da un Cristo nell’orto degli ulivi (fig. 1 ), già nella cattedrale di Pozzuoli, un Interno di cucina (fig. 2) nel museo di Capodimonte, un Martirio di S. Ignazio di Antiochia (fig. 3), scambiato per San Gennaro, conservato nella Galleria Borghese a Roma ed un Abramo servito dagli angeli (fig. 4) nella chiesa napoletana di Materdomini.
Finalmente è giunto il momento di sciogliere la riserva e di mettere in soffitta questo antico nome di convenzione, dando una accettabile paternità ai dipinti sub iudice, assegnandoli equamente i primi due a Francesco e gli altri due a Nunzio Rossi. Partiamo da quest’ultimo sul quale negli ultimi anni hanno pubblicato la Novelli Radice e De Vito. Allo stato degli studi il Rossi si profila come una delle personalità artistiche più interessanti venute di recente alla luce, alla pari dello Spinelli e di Girolamo de Magistro. Il suo stile si manifesta nel gusto della pennellata densa e pastosa gettata sulla tela con impeto, che affonda le sue radici nel più antico naturalismo, dal Ribera al Maestro dell’annuncio ai pastori. La sua vena di narratore è delirante e ben si esprime nelle fisionomie stravolte dei suoi personaggi, che spesso, soprattutto nelle tele bolognesi risentono del gigantismo appreso dalla lezione di Tibaldi. Il Martirio di S. Ignazio di Antiochia (fig. 3), della Galleria Borghese, è più conosciuto col nome errato di San Gennaro azzannato dai leoni, imprecisione del Longhi, parzialmente corretta dal Causa che indicava i mordaci carnefici come mastini napoletani, definiti “possenti come belve ma non leoni”. Prima di ritornare alle belve è necessario correggere l’errore più vistoso: non si tratta di San Gennaro bensì di S. Ignazio di Antiochia. La tela gronda vistosamente un crudo ed esasperato realismo, soprattutto nelle due bestie impegnate a divorare il martire. Si tratta di entrambi gli animali in azione, come chiaramente si evince da un’attenta lettura del quadro. Un leone che morde il deltoide destro del santo ed un solerte mastino che completa l’opera più in basso. Il cane è astutamente protetto al collo, il suo tallone di Achille, da un ampio collare metallico e la sua presenza al fianco di un ben più nobile animale come il leone non è casuale, infatti gli antichi Romani adoperavano proprio i mastini napoletani per catturare i leoni, che a quei tempi pascevano tranquillamente alle nostre latitudini, come ben ammoniva la famosa frase” hinc sunt leones”. Un gruppo di tre o quattro cani ben addestrati era in grado, col sacrificio sul campo di qualche esemplare, di catturare il re degli animali e l’artista intende collocare l’episodio nel corso di questa cruenta schermaglia. Il Longhi fu il primo ad essere colpito nel 1928 dalla forte carica emotiva del dipinto ed incitò gli studiosi nel suo Precisioni nelle Gallerie italiane ad impegnarsi per identificare l’ignoto quanto abile maestro. Egli lo pubblicò come opera vicina al Beltrano o al Fracanzano, e successivamente, nel 1969, lo spostò ad Annella De Rosa, infine nel 1980 la Novelli Radice lo ha definitivamente assegnato a Nunzio Rossi. La tela in esame mostra stringenti caratteri di analogia con l’Abramo servito dagli angeli(fig. 4) della Real Santa Casa dei Pellegrini, pur nella rarità dell’iconografia e nella ferocia della rappresentazione, di palpabile immediatezza visiva con le belve che si accaniscono nell’azzannare lo sventurato santo. Abramo e S. Ignazio presentano un’eguale esecuzione del viso e delle mani, anche se, nella composizione in esame, la figura del martire, ripresa in primo piano, risulta più incisiva e trasmette una più potente carica emozionale. I colori, applicati con particolare cura, segno della presenza a Napoli di Artemisia, potenziano la resa realistica dell’episodio. La tela, come le altre del gruppo, un tempo segnalate sotto varie denominazioni, appartiene al rigoglioso soggiorno napoletano del Rossi, in un momento di dialogo serrato con i modi pittorici del Fracanzano e del Maestro dell’annuncio ai pastori. L’Abramo servito dagli angeli (fig. 4) è scandito da note di esasperato espressionismo, in contiguità stilistica con la serie degli Evangelisti della Certosa di Bologna, documentati al 1644. Anche nei dettagli si possono riscontrare lampanti similitudini come “nella fattura degli angeli dal particolarissimo viso dagli occhi un po’ gonfi, senza sopracciglia e la bocca carnosa che è del tutto simile al viso del San Giovanni e della S. Cecilia, mentre il corpo dell’angelo e l’ala sono fatti delle stesse pennellate larghe e sgranate dell’angelo di San Matteo”(Novelli Radice). Rispetto ai lavori bolognesi improntati ad una maggiore ridondanza cromatica, l’Abramo è connotato da una cifra naturalista più vivace che colloca il Rossi senza sfigurare al fianco non solo di Francesco Fracanzano, ma dello stesso Maestro dell’Annuncio ai pastori. Cronologicamente l’opera appartiene al periodo del soggiorno a Napoli, intorno al 1644, prima del trasferimento in Sicilia, dove in alcune opere ritroveremo un esplicito richiamo agli angeli del dipinto in esame, causticamente definiti dal De Vito “non asessuati”. La tela fu molto apprezzata dal Causa, il quale, nell’aggiungerla al gruppo costituito dal Bologna, la definì “un misterioso incontro di vecchia delusa e di giovinezza impudente da ricordarsi per un empito patetico del tutto originale”. Complessa e sofferta è anche la storia critica dell’Interno di cucina(fig. 2) del museo di Capodimonte, segnalato negli inventari della Galleria Francavilla come di scuola napoletana e poi nel museo borbonico dai primi dell’Ottocento, viene accostato al nome di Francesco Fracanzano nel catalogo stilato nel 1930 dal Quintavalle, attribuzione confermata dall’Ortolani nel 1938. Il Bologna lo inserì poi nel gruppo di opere raccolte sotto la dizione di Maestro del Cristo nell’orto degli ulivi dalla tela capostipite conservata nel duomo di Pozzuoli, serie che, oltre ai dipinti precedentemente da noi citati comprendeva anche i SS. Pietro e Paolo di Bernard Castle ed il Filosofo della Galleria Brignole di Genova, opere certamente di Fracanzano ed il Geografo del museum of fine arts di Boston, ritenuto dalla critica del Maestro dell’annuncio ai pastori. Lo studioso pensava a Michelangelo Fracanzano, figlio di Francesco e dal De Dominici erroneamente ritenuto figlio di Cesare, una figura ancora misteriosa, vissuta in decenni successivi alla creazione dei dipinti, segnalato dalle carte d’archivio non come pittore, anche se un recente ritrovamento documentario lo vede all’opera nel 1675 col pennello. Il Causa ritornando sull’argomento nel 1972 confermò il nucleo di quadri proposto dal collega attribuendolo ad un Anonimo fracanzaniano e tenendo fuori l’Interno di cucina. La Novelli Radice trasferì poi tutta la produzione nel catalogo del Rossi. Fu Leone de Castris in uno dei saggi introduttivi del catalogo della mostra londinese da Caravaggio a Luca Giordano a tornare sull’argomento, riconoscendo alla tela di Capodimonte i forti caratteri espressionistici comuni a tutta serie, ed ancora nel 1994, in occasione di una mostra napoletana l’Interno di cucina fu esposto sotto l’antica dizione. Fino a quando nel catalogo della mostra di Rimini Tra luci ed ombre, tenutasi nel 1996, Spinosa restituì a Francesco l’opera per le stringenti affinità con tutta la produzione del quarto decennio, caratterizzata da lampante immediatezza e verità di resa tattile e visiva dei brani figurativi. Lo studioso sottolineava inoltre il gusto per una materia vigorosamente impastata e il riporto puntuale della verità oggettiva nelle epidermidi rugose, nelle mani nodose e nella perentoria possanza delle braccia. Notevole è l’inserto di natura morta presente nella composizione, per il quale si può ipotizzare la partecipazione di uno specialista da ricercare tra i membri della famiglia Recco, Giuseppe, a cui richiama la torta o Giovan Battista, abile nel resa del vasellame. Resta infine da considerare il dipinto che ha dato il nome al raggruppamento: il Cristo nell’orto degli ulivi(fig. 1) della cattedrale di Pozzuoli, mai osservato se non in foto da nessuno degli studiosi delle ultime generazioni, perche relegato da oltre cinquanta anni nei depositi, una sorte indecorosa comune a tante altre pale d’altare dei maggiori pittori napoletani dell’epoca che adornavano la chiesa fino al 1964, quando prima un rovinoso incendio, poscia il terremoto del 1980 ed infine il bradisismo hanno costretto in esilio al buio questi capolavori, ad eccezione dei quadri della Gentileschi esposti a Capodimonte. Ragionevolmente riteniamo di poter attribuire la tela ad una collaborazione tra i due fratelli, per raffronti stilistici e per il racconto delle fonti che ci forniscono la circostanza della loro presenza nel cantiere del duomo, dove era conservato anche un altro dipinto: San Paolo che scrive l’epistola a Filomene (fig. 5), che la critica ha assegnato ora a Francesco ora a Cesare, riscontrando i caratteri ora dell’uno ora dell’altro e che noi pensiamo possa essere prodotto di una collaborazione familiare. Achille della Ragione
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