Salerno: Frammenti autobiografici tra serio e faceto, Ricordi dell’ospedale di Cava de’ Tirreni
Fra poco saranno trascorsi 40 anni dal mio ingresso come assistente incaricato nella divisione di Ostetricia dell’ospedale S. Maria dell’Olmo di Cava de’ Tirreni. Il tempo è volato senza che me ne accorgessi, era il 1973, mi ero laureato nell’autunno del 1972 ed ancor prima della tesi, attraverso un’inserzione sul giornale medico Il polso, mi ero offerto agli ospedali italiani: giovane laureato, ottima votazione(ancora non la conoscevo, sarà 108/110) esaminerebbe proposte di lavoro.
Erano tempi felici, la disoccupazione tra i medici era ancora lontana ed ebbi numerose proposte, soprattutto da ospedali del nord, che mi offrivano, oltre al posto a tempo pieno, anche vitto e alloggio. L’unica proposta in Campania venne dall’ospedale di Cava de’ Tirreni, ove mi recai a discutere col primario il dottor Clarizia, squisito gentiluomo d’altri tempi, al quale confessai che come medico non sapevo fare niente. “Non preoccuparti, all’inizio basterà che ti interessi della compilazione della cartelle, poi poco alla volta imparerai. Mi accompagnò dal direttore sanitario, il dottor Terracciano, burbero ma innocuo e dal presidente l’avvocato Clarizia suo cugino, i quali mi assicurarono che in pochi giorni avrebbero fatto un bando per un incarico da assistente e lo avrebbero tenuto segreto, in maniera tale che io fossi l’unico a presentare la domanda. In pochi giorni mi trovai assunto con uno stipendio di 492.000 mensili, per intenderci mia moglie, che insegnava matematica nei licei, ne prendeva 250.000. Nel reparto non si praticavano interventi ginecologici più audaci del raschiamento diagnostico o della polipectomia, poiché il primario e l’aiuto, dottor Violante, non erano propriamente delle cime, ma poco più che dei mammani. La routine era costituita dai parti, 1 – 2 al giorno, che venivano espletati per la quasi totalità per via naturale, con le donne assistite dalle ostetriche, i medici intervenivano solo a mettere quattro punti di sutura se la ferita vaginale era irregolare. A volte, se necessario si ricorreva al rivolgimento podalico ed al forcipe,(manualità che oggi, in epoca di sfrenato ricorso al taglio cesareo, farebbero tremare un luminare). per cui le possibilità di apprendere per un giovane erano alquanto limitate. Nello stesso periodo lavoravo anche al nuovo policlinico da poco aperto a Cappella Cangiani, perché agli specializzandi era offerto un contratto e la possibilità di proseguire poi la carriera come assistente. Anche lì le possibilità di imparare erano quasi nulle ed infatti quasi niente imparai, in compenso guadagnavo un secondo stipendio, che arrotondavo ulteriormente sostituendo i colleghi nei turni notturni, a tal punto che mia moglie, fresca sposa, si lamentava di passare più notti dormendo con la sorella che con il baldo quanto super impegnato marito. A Cava espletavo l’orario di 40 ore settimanali dal sabato pomeriggio al lunedì mattina, per non sottrarre tempo al mio studio privato che cominciava a funzionare a gonfie vele. Venivo adoperato prevalentemente come medico di guardia al pronto soccorso, che in un ospedale di provincia rappresenta una vera e propria trincea,un porto di mare, anzi spesso è mare aperto, esposto a venti procellosi e a devastanti maree. Il battesimo del fuoco avvenne durante l’epidemia di colera che colpì Napoli e la Campania nel 1973. Ci erano pervenute alcune centinaia di dosi, ma la mattina in cui cominciarono le vaccinazioni la paura aveva contagiato talmente la popolazione che in fila si accalcarono non meno di cinquemila persone, che urlavano e spintonavano. I colleghi erano terrorizzati:”Cosa succederà quando dovremmo dire a questa folla inferocita che non possiamo proseguire?”. Ho rivissuto quella emozione mista a terrore, vedendo di recente alcune scene del film Contagio, nel quale, all’annuncio che a breve si sarebbero interrotte le vaccinazioni per esaurimento del farmaco, centinaia di persone invadono l’ospedale, dandosi ad atti vandalici e prendendosela con i malcapitati sanitari che vengono percossi ed insultati. Quel giorno a Cava non successe nulla del genere, perché mentre tutti erano paralizzati dal terrore, io ordinai alle infermiere di portare tutta l’acqua distillata e le soluzioni fisiologiche che avessero trovato e con quelle vaccinammo svariate migliaia di cittadini tra ringraziamenti e bacia mano. In un piccolo nosocomio quale era quello di Cava de’ Tirreni, dove ho cominciato la mia carriera di medico, i casi gravi, i cosiddetti casatielli, era opportuno dirottarli altrove, nell’interesse dei pazienti, ma soprattutto dei colleghi reperibili, che potevano tranquillamente continuare a fare studio privato o a dormire a secondo dell’ora del ricovero. Si trattava unicamente di valutare la gravità del paziente e di convincere lui ed i parenti, sempre agitatissimi, che si faceva tutto nel suo esclusivo interesse, che lo avremmo volentieri curato, ma altrove sarebbe stato assistito meglio. Fratture scomposte, addomi acuti e crisi anginose venivano inviate a Salerno, i casi ancora più gravi verso il Cardarelli. I giorni festivi si indirizzavano altrove anche le crisi asmatiche e tutta la patologia chirurgica che andava trattata con urgenza. Quando io ero di guardia i colleghi reperibili delle varie branche potevano stare tranquilli. Molto frequenti erano poi i casi di baldi giovanotti che rimanevano con l’uccello incastrato nella cerniera dei jeans e dopo alcuni disperati tentativi correvano impauriti in ospedale, spesso accompagnati dalla fidanzata in ansia quanto e più di loro. Bastava allora un colpo netto nel verso contrario all’apertura ed il batacchio era di nuovo libero, con meraviglia dell’interessato e focosi complimenti da parte delle accompagnatrici per lo scampato pericolo. Un caso eclatante di cui si parlò a lungo fu l’incontro scontro con un delinquente, che aveva da poco, in un alterco, sferrato uno schiaffo ad una vicina di casa lasciandole ad imperitura memoria sul viso la traccia rossastra delle cinque dita. La sventurata giunse esanime al ospedale e pochi minuti dopo, mentre la stavo soccorrendo, giunse il malvivente che cominciò a minacciare: “Guai a te se fai il referto, ti sparo in bocca”. Uno sguardo alle dimensioni corporee dell’individuo, alquanto modeste, mi diede coraggio e lo invitai ad uscire altrimenti avrei chiamato la polizia. Addirittura lo prendevo in giro: “Ma se io non apro la bocca come fai?”. Non l’avessi mai detto lo scellerato, mentre parlavo telefonicamente col commissariato, cominciò a sferrare calci agli infermieri ed a bestemmiare le divinità delle principali religioni monoteiste. Trascorsi alcuni minuti giunge un agente, poco meno che sessantenne, il quale riconosce il furfante e prendendolo per un braccio cerca di portarlo fuori, ma scivola malamente e cadendo perde l’unico dente sul quale poggiava la dentiera. Il malvivente continuava a sbraitare per cui, aiutato da Michele, un infermiere robusto ed ubbidiente, lo immobilizzai e, sotto la minaccia di un bisturi, lo costrinsi a più miti consigli. Chiamai di nuovo al commissariato chiedendo un intervento più efficace e spiegando che l’agente da loro inviato era stato costretto al ricovero. “Che dite, facciamo subito intervenire delle pantere da Salerno”. Dieci minuti ed in contemporanea polizia e carabinieri sono sul luogo del misfatto, impacchettano il delinquente e lo conducono in gattabuia. Gli infermieri ed i portantini in coro mi assalgono: “Dottore voi siete un pazzo, Totonno è da poco uscito dopo aver scontato venti anni per un duplice omicidio”. Processo per direttissima, nessuno dei testimoni si presenta ad eccezione del sottoscritto, minacciato senza esito da un fratello dell’imputato, conferma della deposizione e quattro anni di pena, interamente scontati. Il Mattino dedicò nove colonne all’episodio e i colleghi fecero una gigantografia che fu appesa alle pareti del pronto soccorso e per anni, quando sorgeva una controversia con i parenti degli ammalati, pane quotidiano in un pronto soccorso di frontiera privo di drappello, io invitavo prima di continuare la questione a leggere l’articolo e poi eventualmente decidere di continuare: un prodigioso antidoto per qualsiasi diatriba. Achille della Ragione
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